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L'analisi

Con un'elevata domanda di concerti, il dynamic pricing è parte della soluzione

Marco Gambaro

La regolamentazione dei prezzi può fare poco: quanta più gente è disposta a pagare per un servizio tanto più alto sarà il costo del biglietto. Il caso Oasis

Quando il 31 agosto sono stati messi in vendita i biglietti per i 17 concerti del tour 2025 della reunion degli Oasis, in poco tempo è scoppiata la tempesta perfetta. Sul sito di Ticketmaster c’erano milioni di persone in coda, il dynamic pricing ha riallineato i prezzi che sono rapidamente saliti a 240 e poi 350 euro per il milione di fortunati che li hanno ottenuti, mentre già nel pomeriggio sui siti specializzati i bagarini li mettevano in vendita a 1.200 euro. Certo, lo squilibrio tra domanda e offerta era gigantesco, visto che i fan aspettavano dal 28 agosto del 2009 quando Noel Gallagher lasciò la band poco prima dell’inizio del terzultimo concerto del tour.

Il deputato rock Brando Benifei con un’interpellanza al Parlamento europeo ha ingaggiato una guerra contro il dynamic pricing non molto dissimile da quella che qualche mese prima aveva intrapreso il ministro Urso contro le compagnie aeree, colpevoli di aumentare i prezzi dei voli per le isole quando la domanda cresceva, cioè in estate e a Natale. Quella volta l’antitrust italiana aveva concluso che non c’erano stati comportamenti sanzionabili da parte delle compagnie aeree ed è probabile che la Competition and Markets Authority (Cma) inglese arrivi alle stesse conclusioni per i concerti.

Il dynamic pricing in sé non ha molte colpe: adegua i prezzi in funzione della domanda come avviene anche per i biglietti aerei e le corse di Uber, oppure fa una specie di asta assegnando i biglietti a chi è disposto a pagare di più. Cosa sarebbe successo prima? Fissato un prezzo i biglietti sarebbero finiti in pochi minuti e poco dopo sarebbero stati venduti sul mercato secondario a prezzi basati sulla disponibilità a pagare degli utenti più ricchi e appassionati.

In questo contesto il dynamic pricing non fa altro che riportare alla band parte dei ricavi che altrimenti andrebbero ai bagarini. In teoria fissa il prezzo secondo la disponibilità a pagare per un acquisto che rimane volontario.

Detto questo, sia il dynamic pricing sia la discriminazione di prezzo stanno abbastanza antipatici ai consumatori soprattutto per ragioni di equità (“se lui paga poco perché io devo pagare tanto?”)  e per ragioni di aspettative (“mi ero fatto l’idea che costasse poco e alla fine il prezzo era più alto”).

Nelle tempeste perfette le cose naturalmente si complicano e le magagne si moltiplicano: per cui il sito di Ticketmaster era ovviamente sotto pressione, i consumatori non capivano qual era il prezzo per cui si stavano affrettando, secondo molti le informazioni erano insufficienti.

Quindi esiste un tema di protezione dei consumatori, ma riguarda la necessità di informazioni adeguate, la spiegazione di come funziona il sistema, la possibilità di uscirne facilmente. Ci sono anche aspetti comportamentali: secondo Amelia Fletcher, che insegna Competition Policy alla University of East Anglia, l’approccio usato questa volta potrebbe essere “bait and switch” per cui ti lego all’acquisto per step successivi e mentre ti immagini già al concerto finisci per pagare un prezzo più alto di quanto saresti stato disposto all’inizio. Ma anche qui i rimedi sono più informazioni e disclaimer.

Ma il cuore del problema resta intatto: quando la domanda è molto superiore all’offerta non ci sono molte soluzioni: o salgono i prezzi, o si aumenta l’offerta, oppure si fa razionamento. Quest’ultimo si può effettuare in molti modi: “first come first served”, come succedeva tradizionalmente, i pochi biglietti vanno agli amici degli amici (un po’ all’italiana); estrarre a sorte, che è quello che hanno annunciato gli Oasis per le date che verranno aggiunte in modo da limitare il senso di frustrazione dei fan. Ma se faccio razionamento tenendo i prezzi bassi, si creerà comunque un mercato secondario per l’arbitraggio dove i bagarini comprano da chi valuta meno l’evento per rivendere a chi valuta di più: succede nelle materie prime e nelle azioni, nei nodi del trasporto marittimo e naturalmente nei concerti.

È utile fornire un po’ di contesto. Da diversi anni i concerti sono diventati per gli artisti la componente di reddito più importante: dopo un calo attorno al 2000, il numero dei concerti e dei biglietti è cresciuto lentamente mentre i prezzi sono aumentati in modo significativo, come può avvenire quando sia la curva di domanda che quella di offerta si spostano verso destra.

Lo sviluppo dello streaming ha allentato il legame con gli artisti preferiti e ha contribuito alla domanda di esperienza e di contatto diretto che si realizza nei concerti. Inoltre le tecnologie hanno trasformato il prodotto live con più effetti speciali e multimediali che ne aumentano l’attrattività. Sul lato dell’offerta invece lo sviluppo dello streaming e il cambiamento della configurazione del mercato hanno ridotto significativamente le royalties discografiche che arrivavano agli artisti e li hanno spinti a sviluppare lo spettacolo dal vivo. È cambiata la collocazione dei concerti nei contratti discografici. Mentre fino agli anni Novanta i concerti erano un obbligo contrattuale cui gli artisti si impegnavano per promuovere il disco, oggi sono i dischi che sono diventati uno strumento promozionale per i tour, perché è nei tour si fanno i soldi veri. Gli artisti prendono il 50-60 per cento degli incassi, ma un analista ha stimato che Taylor Swift nell’ultimo tour non è mai scesa sotto l’85 per cento.

Una prima soluzione per far incontrare domanda e offerta ed evitare sia le code tremende sia il bagarinaggio consiste nell’aumentare i prezzi. Ma gli artisti sono restii perché temono di innescare un fenomeno di rigetto: il mio artista adorato non può approfittare troppo del mio amore e della mia disponibilità a pagare. Inoltre gli artisti temono l’effetto posti vuoti. Se i concerti sono sempre sold out è possibile immaginare che la domanda che aspetta sia infinita.

La seconda soluzione è aumentare le quantità di biglietti disponibili facendo più date. Ma gli artisti, specie quelli famosi, guadagnano molto e i concerti sono faticosi e quindi preferiscono non fornire tutti i biglietti per i quali ci sarebbe domanda. In fondo chi glielo fa fare. Meglio fare alcune date scelte e poi solidarizzare con i fan contro i bagarini.

Resta dunque lo squilibrio tra domanda e offerta, è difficilmente eliminabile e rimarrà a farci compagnia col contorno di code, intasamenti e qualche arrabbiatura. La regolamentazione può far poco. In questo squilibrio strutturale il dynamic pricing c’entra poco. Semmai è un pezzo della soluzione. Naturalmente c’è sempre la possibilità di pensare che i prezzi bassi dei concerti rock siano un diritto e che lo stato debba finanziare questa forma di intrattenimento. E certo lo sviluppo di una domanda elevata a prezzi alti per la musica leggera potrebbe mettere sotto pressione i concerti di musica classica. Ma questa è un’altra storia.

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