Richard Gerstl. Ritratto di Arnold Schönberg - 1905. Wien Museum (Wikimedia) 

Viva Schoenberg, il padre della dodecafonia nel 150° della nascita

Mattia Rossi

Il genio che emancipò la dissonanza. Il 2024 celebra il compositore di cui, secondo Harvey Sachs, abbiamo ancora bisogno. La sua musica, enigmatica e spigolosa, continua a sfidare l'ascoltatore

Arnold Schoenberg, teorizzatore della dodecafonia e uno dei padri (sicuramente uno dei più radicali) della musica del Novecento, soffriva di triscaidecafobia: aveva il terrore del numero 13. Si racconta che all’età di 65 anni, nel 1939, chiese al suo astrologo di fiducia se quello fosse l’anno della sua morte, perché il numero 65 è divisibile per 13. L’astrologo gli rispose negativamente: il compositore, allora, ipotizzò che sarebbe avvenuta 13 anni dopo, a 78 anni. In realtà, a 76 anni, nel 1951, si rese conto che la somma dei due numeri era 13: morì il 13 luglio di quell’anno.


Se vogliamo essere schoenberghiani, il 2024, invece, è un anno propizio: ricorrono, infatti, il 150° della nascita (1874) e il centenario della prima esecuzione italiana del “Pierrot lunaire” (1924). Purtroppo per il compositore viennese, però, gli anniversari assai più popolari di quest’anno – Puccini in testa – non gli rendono giustizia.


Il musicologo Harvey Sachs, autore di una bella monografia su Schoenberg appena approdata in Italia grazie al Saggiatore, sostiene che sia un autore di cui abbiamo bisogno. Eppure, è lo stesso Sachs a confessare come dopo ripetuti e insistenti ascolti della musica di Schoenberg sentisse il bisogno fisico e mentale di ascoltare un po’ di Mozart. Certo, inutile nasconderlo, la sua musica è un macigno: a tanta grandezza corrisponde anche tanta difficoltà. Quasi come un sacerdote del pentagramma, Schoenberg, nonostante le difficoltà economiche (aveva lasciato il lavoro in banca per occuparsi solamente di musica con una moglie incinta e una madre vedova a carico) che lo costrinsero a guadagnarsi da vivere orchestrando musiche per chi non era in grado di farlo, non abbandonò mai la sua volontà di intraprendere strade di ricerca audaci: “Mi batto per la completa liberazione da tutte le forme”, scrisse Schoenberg a Ferruccio Busoni (altro festeggiato di quest’anno) nel 1909. Eppure, quella che fu una liberazione si fondò su un rigido ancoramento al passato. Il “Trattato di armonia” schoenberghiano non è una esposizione della dodecafonia, ma un manuale di musica tonale: “E’ triste, ma l’idea che ‘oggi si può scrivere tutto’ distoglie tanti giovani dall’imparare prima qualcosa di decoroso, dal comprendere le opere dei classici, dal farsi una cultura”.


Ecco il segreto del fascino della musica di Schoenberg: riuscire a essere multiforme come multiforme è l’uomo, spigolosa e aspra ma anche dolce e lirica. E’ proprio nella costrizione, a maggior ragione se dodecafonica, che il compositore giunge a un’autentica purificazione della sua espressività. Quando nel 1907, a Vienna, Schoenberg diresse la sua “Kammersymphonie”, brano non ancora dodecafonico ma che comunque esaspera quella che definì l’“emancipazione della dissonanza”, tra il pubblico vi era anche Gustav Mahler che, di fronte agli schiamazzi e derisioni del pubblico, si alzò e pretese il silenzio: “Non capisco la sua musica, ma è giovane; forse ha ragione”, si giustificò.


Oggi capiamo la musica di Schoenberg? Mai totalmente, rimane qualcosa di insondabile. E, sì, è ciò di cui abbiamo bisogno perché, come scrisse lo stesso compositore nei suoi diari, “la musica è meravigliosa proprio perché si può dire qualunque cosa in maniera tale che chi sa comprende tutto, e tuttavia si conservano i propri segreti, quelli che non si confessano neppure a sé stessi, che non si svelano”.
 

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