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Willy Vlautin, di cavalli, chitarra e bizzarri racconti

Vittorio Bongiorno

Fuorilegge del country e prolifico romanziere, il cantante e scrittore racconta l'America profonda, palchi sgangherati e città fantasma

Tonopah, cittadina mineraria di duemila anime nel cuore del deserto del Nevada, Stati Uniti. Due uomini camminano nella landa sconfinata a una trentina di chilometri dalla strada più vicina. Sono amici e attraversano il deserto parlando fitto senza accorgersi del passare del tempo. Sono lo scrittore e musicista Willy Vlautin, classe 1967, e un suo vecchio amico. Non c’è niente intorno a loro, né case, né alberi, né acqua. Solo sabbia e terra. I due si fermano all’improvviso dopo aver avvistato la statua di un cavallo nero. Ma che ci fa una statua lì in mezzo al niente dove il Signore ha perduto le scarpe? I due si avvicinano in silenzio, alquanto increduli, per poi scoprire che in realtà quella non è una statua ma un cavallo selvaggio, vivo. È vecchio, con decine di cicatrici su tutto il corpo, e soprattutto è cieco. Immobile, arrivato dal nulla chissà come.
 

Sembra una storia inventata, una di quelle leggende metropolitane (anzi desertiche) che si tramandano in città come Tonopah, abitate prevalentemente da fantasmi o da chi non vuole essere più trovato, ma in realtà è un fatto accaduto davvero a Vlautin, che da allora è rimasto ossessionato da quell’apparizione. “Quel cavallo mi è rimasto impresso per anni”, mi racconta in una chiacchierata in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo “Il cavallo” (Jimenez Edizioni, 2024), “è un’immagine da cui non sono mai riuscito a fuggire. E no, non ero ubriaco ma avrei voluto esserlo”.
 

“Il cavallo” è il suo ultimo romanzo. Un’apparizione “da cui non sono mai riuscito a fuggire. Non ero ubriaco ma avrei voluto esserlo”


Vlautin, nato e cresciuto a Reno, Nevada, ma trasferitosi a Portland, Oregon, è un prolifico e precoce autore di canzoni e libri: comincia a scrivere storie a undici anni, dopo aver ricevuto la prima chitarra, e tra il 1994 e il 2016 incide una decina di album come cantante e chitarrista dei Richmond Fontaine, una delle più apprezzate band che hanno rivitalizzato la tradizione country con robusti innesti di schitarrate punk. Ma la musica rock che affonda le radici nella terra non era sufficiente a placare la sua fame di storie, e così nel 2006 esce il primo di sette fortunati romanzi, due dei quali diventati film (in “The Motel Life” del 2012, tratto dal suo primo romanzo, recita anche la star country Kris Kristofferson, scomparsa qualche giorno fa). Nel 2012, come se non bastasse, forma pure un’altra band, i Delines, descritta come retro country soul, e lì affida i testi delle sue canzoni-storie alla texana Amy Boone. Gli chiedo se adesso ha finalmente superato l’imbarazzo di stare sotto il riflettore, sul palco: “Mi piace cantare, ma non mi sono mai sentito un buon frontman e non mi piaceva molto esserlo. Invecchiando ci si rende conto che se si vuole cambiare la propria vita, bisogna cambiarla davvero. Le cantanti donne sono sempre state le mie preferite e adoro la voce di Amy. Volevo invecchiare in un gruppo che suonasse grandi ballate e avesse una cantante in cui credessi. Per fortuna ci sono i Delines. Così ho cercato di cambiare e sono stato fortunato”.
 

Cantante e chitarrista dei Richmond Fontaine, una delle band che hanno rivitalizzato la tradizione country con robuste schitarrate punk


Che sia il testo di una canzone o un romanzo, al centro delle storie di Vlautin ci sono sempre persone vere, uomini e donne alla deriva in cerca di un posto dove approdare. In pratica la classe operaia, il cuore dell’America di cui i media spesso si ricordano solo per sbatterli nelle pagine di cronaca nera con un titolo a effetto. John Steinbeck, il grande scrittore e premio Nobel che ha dedicato nel 1939 al popolo un capolavoro come “Furore”, diceva che essere vivi vuol dire avere cicatrici, e i personaggi raccontati da Vlautin infatti sono pieni di ferite causate dalla vita. Non è un caso che la critica abbia tirato in ballo i nomi di due giganti come Steinbeck e Carver per definire la poetica del musicista-scrittore. “Quando frequentavo il liceo amavo Steinbeck. Avevo la sua foto accanto a tutti i miei poster di gruppi rock. Jam, Pogues, X e John Steinbeck”, mi racconta Vlautin quando gli chiedo da dove arrivi la forza propulsiva della sua scrittura, “è sempre stato un mio eroe e mi ha dato grande conforto da bambino. Carver l’ho letto quando avevo vent’anni. Mi ha letteralmente sconvolto. Ho letto “Da dove sto chiamando” e non riuscivo ad alzarmi dal letto. Scriveva spesso di uomini portati in braccio da donne. Uomini falliti che lottavano con l’alcol, la disoccupazione, la depressione, e le donne della loro vita erano quelle che andavano a lavorare ogni giorno, pagavano le bollette, tenevano a galla la casa. Non avevo mai letto storie del genere e mi ha colpito molto perché conoscevo bene quel mondo. Non immaginavo però che si potesse scrivere di queste cose. Forse una settimana dopo aver letto quella raccolta ho iniziato a scrivere le mie storie. Stilisticamente sono sempre stato attratto dalle frasi semplici. Frasi che si sentono scritte quasi col sangue”. La famosa vita vera, messa anche in musica dai grandi raccontastorie della musica country, come l’instancabile Willie Nelson, a cui viene accreditata la celebre frase “La country music è tre accordi e la verità” (in realtà dell’altro autore di canzoni Harlan Howard). O come John Doe, il mitico bassista e cantante degli X, la band punk che ha raccontato la Los Angeles dei bassifondi, a cui il romanzo “Il cavallo” è dedicato.
 

Ci addentriamo in una bella discussione sull’origine di quella che in America viene definita roots music, la musica che affonda le sue radici nelle storie della gente vera, che sa di tabacco e whiskey e di languide chitarre lap steel. Vlautin mi racconta che il suo ingresso in quel mondo è avvenuto grazie a Tom Waits, Bruce Springsteen e i Pogues, e solo in un secondo tempo con gli scapestrati outlaw, i fuorilegge capitanati dall’eroe nazionale Willie Nelson, oggi novantunenne: “Da bambino mi ha colpito l’idea di evasione. Ascoltare una storia e poter scomparire da se stessi. Amo Willie ma allora era l’unico artista country che conoscevo. È stato un grande eroe per me per tutta la vita, ma è stato solo attraverso le band cowpunk come Green on Red, X, Los Lobos, Long Ryders e Blasters che ho scoperto la musica country. E poi grazie a loro ho scoperto anche Merle Haggard, Buck Owens e gli altri. Ma il mio cuore è sempre stato con i cantautori di storie un po’ troppo strane per il country puro, un po’ fuori dagli schemi”. Gente che ha fallito e non si capacita di come sia successo, perseguitata del passato e impaurita da un futuro che non riserva altro che guai. Proprio come il protagonista del romanzo “Il cavallo”, il vecchio Al Ward, ex musicista country che ha trascorso una vita in tour su un furgone scassato in posti tipo Montana, Wyoming, Utah o Colorado, a suonare in locali di merda e sale di casinò davanti a gente annoiata e ubriaca. All’inizio del libro lo troviamo in una baracca senza riscaldamento a 1.800 metri in una miniera abbandonata, a 50 chilometri dal ranch più vicino e con una vecchia auto che non parte. Si nutre da mesi con zuppe in scatola, caffè istantaneo e una scorta di tequila che sta inesorabilmente finendo. Come la sua vita.
 


Il vecchio Al è tormentato dai ricordi di una vita, dai fantasmi che ha incontrato lungo il cammino, nei fetidi bar e nelle sudice rosticcerie, amori consumati in squallide stanze di motel annaffiate da un fiume di alcol. In realtà tutte queste donne e questi uomini, magicamente, sono diventati i personaggi delle sue canzoni, e qualcuna è stata incisa da qualche discreto artista che ha quasi sfiorato le classifiche. C’è addirittura gente che va dal vecchio Al con diecimila dollari in contanti per farsi scrivere dieci delle sue canzoni malinconiche, profonde, vere. E il vecchio Al tira fuori un nuovo taccuino rilegato a spirale e comincia diligentemente a scrivere le storie che ha vissuto. Ne vengono fuori canzoni con titoli evocative come “Hard Living, Hard Drinking, Hard Times”, “When the Clock Strikes Three and I’m Not Home”, “My World Died in a Las Vegas Suite”, “Help Me Brother I’m Sinking Fast” (“Vita dura, bere pesante, tempi duri”, “Quando l’orologio batte le tre e non sono a casa”, “Il mio mondo è morto in una suite di Las Vegas”, “Aiutami fratello, sto affondando rapidamente”): nonostante siano solo titoli scritti nelle pagine di un romanzo, poco a poco nel lettore cresce il desiderio di ascoltarle per davvero queste canzoni, suonate da Al Ward con il suo tocco magico sulla Fender Telecaster del ‘59 color caramello, uno strumento iconico che sembra quasi di sentire in lontananza. A dirla tutta le canzoni dei Richmond Fontaine, come pure quelle dei Delines, somigliano tanto alle canzoni immaginate su carta da Vlautin: in una canzone come “I Got Off The Bus” Vlautin canta “Sono sceso dall’autobus, un mio amico ha detto che sarebbe venuto a prendermi. Ma non si è mai presentato. Quindi ho fatto a modo mio. Ho chiamato una ragazza che conoscevo… ma l’avevo lasciata in modo brusco. Suo padre ha detto che si è sposata. Ha detto che non si ricordava di me, ma sapevo che mentiva”. E, ancora, in “Little Earl” dei Delines, cantata dalla bella Amy Boone: “Il piccolo Earl sta guidando lungo la costa del Golfo, seduto su un cuscino così da poter vedere la strada. Accanto a lui c’è una confezione da dodici di birra, tre pizze surgelate e due accendini come souvenir. Il fratello del piccolo Earl sanguina sul sedile posteriore. Sono passate venti miglia e non riesce a smettere di piangere”.
 

“Quando frequentavo il liceo amavo Steinbeck. Avevo la sua foto accanto a tutti i miei poster di gruppi rock. Jam, Pogues, X e John Steinbeck”


All’improvvisto il vecchio Al, che aveva deciso di lasciarsi morire in solitudine, scorge la sagoma di un cavallo fuori dalla baracca, sotto la neve. Esattamente come il cavallo incontrato da Vlautin è ferito e immobile, e Al non capisce se è un’illusione, una metafora della sua vita o è davvero un fottuto cavallo. Sono pagine palpitanti, intrise di profonda compassione, un racconto dolce e malinconico che non si vorrebbe mai smettere di leggere. Il vecchio Al, ferito dalla vita, deve decidere se lasciarsi morire o provare a salvare quello che potrebbe essere solo un miraggio di libertà. Il cavallo vero, quello incontrato dal Vlautin nel deserto del Nevada, viene salvato dai soccorsi chiamati dallo scrittore. Nelle lande desertiche dell’America più autentica molti salvano i cavalli selvaggi o feriti da incidenti di rodeo che finirebbero altrimenti al macello. Lo fa Willie Nelson nel suo Luck ranch in Texas, dove ne ha accolti 70, e lo fanno i miei amici di Restoration Ranch, a Bastrop, sempre in Texas, che curano i veterani feriti e traumatizzati reduci dalle guerre. Intuisco che quegli animali siano un’altra sua grande passione e Vlautin mi racconta che da bambino ha sognato di averne uno per anni: “Facevo impazzire mia madre. C’era un campo vicino a casa nostra e io la pregavo sempre di prenderne uno e tenerlo lì. La mia povera mamma. Era al verde e riusciva a malapena a tirare avanti e io volevo un cavallo! Mia moglie è una vera appassionata di cavalli, ne aveva uno quando ci siamo messi insieme e adesso sono diventati due. Sono molto impegnativi, ma c’è qualcosa che mi distende la mente nello stare con loro”. 
Parliamo di vita vera, di sogni e speranze e gli chiedo di sua madre, che nonostante si vergognasse di avere un figlio scrittore sembra avere un posto molto importante nel suo cuore: “Era piuttosto preoccupata all’idea di quello che avrei detto nei miei libri. Ora non c’è più. Non ha mai letto nulla di quello che ho scritto ma è venuta a un paio di concerti dei Richmond Fontaine. Era una tipa a posto, aveva solo bisogno di un figlio diverso, non di un ragazzo ossessionato da libri, film e musica”.
 

Nel lettore cresce il desiderio di ascoltarle per davvero, le canzoni citate ne “Il cavallo”, nonostante siano solo titoli nelle pagine di un romanzo


Quel ragazzo che già a undici anni raccontava storie con una chitarra sembra sempre lì a strimpellare qualcosa. La sua scrittura è cristallina, e l’umanità che riesce a mettere in ogni personaggio, anche in quelli minori, commuove. Si ride con loro, si piange anche e, come dice Vlautin in apertura del romanzo, si riesce a scomparire con loro dentro la storia, dentro le canzoni. È il trucco che gli ha insegnato da ragazzino un amico di suo fratello: il mondo, quando siamo al sicuro dentro una storia o una canzone, non può più farci del male. Tutti i personaggi delle sue storie e delle sue canzoni l’hanno imparato.
 

Nella ballata “Don’t Skip Out On Me” dei Richmond Fontaine Vlautin canta: “Non andartene senza portarmi con te, non abbandonarmi. So che pensi che io sia solo un peso, ma posso sopportarlo il mio peso, solo non andartene via senza di me… Ho una zia in California, mi ha sempre promesso una stanza, ma non abbandonarmi mentre sto dormendo. Le mie budella non sono a posto e la mia salute sta cedendo”. Sono solo tre accordi e la verità.

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