Concerto alla Basilica di San Marco con il coro della Cappella Marciana diretto dal Maestro Marco Gemmani - Courtesy La Biennale di Venezia ph. Andrea Avezzù

Incanto veneziano

Si chiude la Biennale Musica, in cerca dell'assoluto tra antico e contemporaneo

Stefano Picciano

Tre Stabat Mater in un luogo in cui splendori diversi si intrecciano l'un l'altro, grazie a potenzialità acustiche di rara bellezza. Si conclude così la fitta sequenza di appuntamenti musicali, articolati in dieci sezioni per sedici giorni di concerti

Numerosi nessi tra passato e presente caratterizzano la 68° edizione del Festival di musica contemporanea della Biennale di Venezia, che nella sua lunga storia (la prima edizione fu nel 1930) conta un’ampia serie di prime esecuzioni e prestigiose commissioni. Quest’anno la rassegna, tenutasi dal 26 settembre all’11 ottobre, ha dato luogo a una grande varietà di eventi dedicati, come ha sottolineato il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco, a quell’arte “invisibile, come tutto ciò che è sacro”, che “si conchiude in sé, in rapporto diretto con lo spirito”. E’ il tema della musica assoluta, cioè – osserva Lucia Ronchetti, direttrice della Biennale Musica – “quella musica strumentale per così dire autonoma, priva di ogni possibile verbalizzazione, slegata da qualsiasi aspetto visivo, che ha avuto un forte impulso proprio nella sperimentazione della scuola veneziana del passato”. Ecco dunque, nell’arco di sedici giorni, una fitta sequenza di appuntamenti musicali articolati in ben dieci sezioni: all’area intitolata Polyphonies, dedicata a composizioni orchestrali, si è affiancata la sezione denominata Assolo, che ha presentato la voce di strumenti solisti come ambito degno di veicolare l’intera poetica del compositore, mentre quella chiamata Listening/Hearing è stata un originale spazio ideato, all’interno della Sala d’armi e dell’Arsenale, per l’ascolto individuale; Sound Structures è il nome di un’area incentrata sulla contemplazione della dimensione fisica del suono, mentre Absolute Jazz ha racchiuso le esecuzioni di artisti di diversa provenienza culturale ma accomunati dal medesimo linguaggio; la sezione Counterpoints ha unito pagine connesse all’elaborazione contrappuntistica, mentre Solo Electronics ha ospitato concerti dedicati alla musica elettronica sperimentale. Nell’ambito di ciascuna area hanno avuto luogo un gran numero di prime esecuzioni, di presentazioni di opere commissionate dalla stessa Biennale, nonché la consegna del Leone d’oro alla compositrice Rebecca Saunders e del Leone d’argento alla compagine tedesca Ensemble Modern.

 

                              

 

Alla sezione intitolata Musica Reservata, dedicata a strumenti solisti o piccoli ensemble, appartiene il concerto a cui abbiamo assistito negli spazi della Biblioteca Marciana, dove la violista da gamba austriaca Eva Reiter, in collaborazione con Romina Lischka, ha presentato un lavoro commissionato dalla Biennale Musica, L’étoffe de la mémoire, affiancato da una selezione dei Concerts à deux violes esgales, pagina del tardo ’600 di Monsieur de Sainte-Colombe. E’ un’ulteriore suggestione del legame tra presente e passato che, come ancora ci racconta Lucia Ronchetti, ha caratterizzato il Festival: “Attraverso il coinvolgimento di tutte le istituzioni veneziane legate alla storia della musica e di quelle che hanno concorso alla conservazione dei manoscritti, abbiamo voluto evidenziare la continuità tra la contemporaneità e il passato che ci precede: la scuola veneziana ha del resto gettato le basi di tantissimi atteggiamenti compositivi dell’espressività contemporanea”. Al vasto programma di esecuzioni si è affiancata una sezione teorica, denominata Ricercare e strutturata in una serie di incontri, dialoghi e tavole rotonde tenuti nella Biblioteca dell’Archivio storico delle Arti contemporanee, mentre il culmine della sezione denominata Pure Voices è stato il concerto – meravigliosa conclusione dell’intera rassegna – diretto da Marco Gemmani, al quale abbiamo assistito nella serata del 10 ottobre nella cornice – verrebbe da dire senza eguali – della Basilica di San Marco. 


Varcando l’ingresso della Basilica si accede a uno spazio in cui splendori diversi si intrecciano l’un l’altro, invitando lo sguardo a spingersi tra inedite mescolanze di temi bizantini, romanici, gotici che rendono questa basilica unica al mondo. Fondata nel 1063, fu edificata sui resti di chiese preesistenti che avevano accolto le reliquie dell’apostolo segretamente portate a Venezia da Alessandria d’Egitto (828). La sua pianta a croce latina, i suoi ori, le sue cupole richiamando i legami con l’oriente offrono al visitatore i riflessi dell’antico splendore di una Repubblica che, sorta in quella “opera antica della natura” – come Goethe definì la laguna – poteva vantare il maggior porto del Mediterraneo, una gloriosa flotta navale, le prosperità connesse agli intensi rapporti commerciali con terre lontane. Venezia (“ricca d’oro, ma più di nominanza”, scrisse Petrarca) custodisce un passato di sembianze fastose e, sul piano musicale, caratterizzato da una ricchezza unica: “Si fanno concerti singolari in ogni tempo, essendo chiarissima e vera cosa che la Musica ha la sua propria sede in questa città”, riferiva Francesco Sansovino nel 1581, descrivendo una vitalità che trova riscontri anche a livello popolare: “Si cantava – scriveva Carlo Goldoni a metà del ’700 – nei campi, nelle calli, lungo i canali. I commercianti cantavano anch’essi offrendo le loro merci. Gli operai cantavano lasciando il lavoro. I gondolieri cantavano attendendo i clienti”. Il prestigio musicale che attraversa la storia della Serenissima (qui peraltro nel primo ’500 si ebbero, con Ottaviano Petrucci, i primi esempi di stampa interamente musicale) fa da contraltare alla pittura di Giovanni Bellini, di Giorgione, di Tintoretto, di Tiepolo, delle suggestive vedute fissate sulla tela dal Canaletto, mentre l’ambiente letterario (in questa città Aldo Manuzio fu stampatore di inestimabili prime edizioni) trova forse la sua sintesi nella Biblioteca Marciana che – tuttora custode di una vasta raccolta di manoscritti della cultura greca, latina, orientale – ebbe tra i suoi responsabili quel Pietro Bembo che proprio a Venezia, nel 1525, pubblicò le sue Prose della Volgar Lingua. 


Alla già di per sé ricchissima acustica della Basilica si aggiunge il fatto che la sua particolare struttura, con due cantorie poste una di fronte all’altra, unitamente alla pluralità degli organi, generò attorno al ’500 le condizioni per lo sviluppo di uno stile, la cui genesi va collocata proprio in ambito veneto, fortemente caratterizzato e destinato a rimanere strettamente connesso all’ambiente veneziano: è lo “stile policorale” (o “a cori battenti”), fonte di sonorità e risonanze fino allora mai sentite, di un’espressività musicale estremamente ricca e composita, rispondente alla magnificenza che la Serenissima, con lunghe e sfarzose celebrazioni, spiegava dinanzi al mondo di quel tempo. Allontanandosi dagli stilemi romani e anticipando in qualche modo la sensibilità barocca, questo linguaggio inaudito trovò ampi sviluppi in una linea cronologica che annovera i nomi di celebri compositori ed organisti, incentrandosi in modo particolare su quel Monteverdi che in questa città scrisse le sue ultime raccolte di madrigali determinando una svolta per l’intera storia della musica. Dal 2000 alla direzione della Cappella Marciana – erede dunque del prestigioso compito che fu, per saltare da un secolo all’altro, del fiammingo Adrian Willaert, di Claudio Monteverdi, di Lorenzo Perosi – Marco Gemmani raccoglie oggi una tradizione che attraversa i secoli (i Cantores Sancti Marci sono documentati fin dagli inizi del 1300) e giunge al presente carica della vertiginosa ricchezza del passato. Ne parliamo con il maestro stesso qualche giorno prima del concerto: “Quella della Cappella Marciana – ci dice – è una storia molto più ricca di quanto si possa immaginare, e ha rappresentato, in questo suggestivo punto d’incontro tra oriente e occidente, il momento in cui la musica occidentale, allontanandosi dalla cultura mediterranea del tempo, ha preso una direzione nuova trovando la propria vocazione”.

Nella serata, ideata in collaborazione con Basilica e Procuratoria di San Marco, sono stati eseguiti lo Stabat Mater di Giovanni Pierluigi da Palestrina, risalente al 1590 e la omonima opera, di pochi anni più tarda (1597) di Giovanni Croce, esponente della scuola veneziana e anch’egli maestro di cappella a San Marco nel primo ’600; a queste pagine si è affiancato lo Stabat che la compositrice svedese Lisa Streich ha scritto, durante un soggiorno a Roma, nel 2017. Si tratta di una composizione di intensa densità espressiva, scritta per 32 voci suddivise in quattro cori, che – osserva Gemmani – “si presta a un’interpretazione estremamente interessante soprattutto nel contesto di una Basilica caratterizzata da potenzialità acustiche che non si trovano altrove”. Un’atmosfera onirica, meditativa, segnata da suggestive risonanze caratterizza un brano privo di testo – eseguito su pure vocali – ma al contempo ricco di riferimenti a una tradizione qui rappresentata dagli altri due brani eseguiti.

Durante il nostro dialogo, Gemmani ha sottolineato il fatto che quella dello Stabat Mater di Croce è “una prima esecuzione assoluta in tempi moderni: riportiamo dunque alla luce un’opera che nessuno in tempi moderni ha mai sentito”. E qui è d’obbligo fermarsi un momento dinanzi al pensiero del vasto patrimonio che tanti nostri archivi custodiscono: opere che spesso ancora attendono, in un secolare silenzio, di essere recuperate per tornare a far sentire la loro voce. Un tesoro nascosto di inestimabile valore: “La ricchezza è tale – ha aggiunto Gemmani in riferimento alla storia veneziana – che noi stessi ancora non conosciamo l’opera di tutti i compositori dei secoli passati, e quando riportiamo alla luce qualcosa di sconosciuto vi è sempre grande stupore per la qualità delle pagine che dopo tanto tempo tornano finalmente a risuonare”. Tra i momenti più suggestivi quello in cui, dopo qualche istante di intensissimo silenzio, si stagliano nella Basilica le prime note della pagina a otto voci di Palestrina: ci troviamo nell’epoca aurea di quell’arte del contrappunto che Baldassarre Donato, anch’egli maestro di cappella a San Marco sul finire del ’500, definì “la tramontana di boni musici”, cioè – con metafora marinaresca – la loro stella polare (“se li cantori di capella – aggiungeva – sapessero tutti contraponto, o la maggior parte, farebbe ancora più bel sentir”). Le parole della celebre sequenza attribuita a Jacopone da Todi, messa in musica in innumerevoli versioni dai maggiori compositori della storia, risuonano tra le volte dorate e nel rapido susseguirsi delle venti strofe ci conducono alle soglie di una bellezza indefinibile (torna alla mente l’affascinante espressione di George Braque: “C’è soltanto una cosa che vale nell’opera d’arte ed è quella che non si riesce a spiegare”). E’ il cuore della claritas rinascimentale. La drammatica narrazione degli eventi evangelici si coniuga con la compostezza che solo in Palestrina con tale intensità risiede, facendoci ripensare, con le parole di Karl Solger, a quanto sia vero che “la musica è sentita sempre come qualcosa di universale e al contempo l’universale stesso è sentito come qualcosa di particolare”: il dolore della Madre diviene rappresentazione di ogni dolore, la tenerezza del suo sguardo verso il Figlio diviene archetipo di ogni umana tenerezza.


La vicinanza tra pagine della classicità rinascimentale e l’intensa espressione di un’opera contemporanea evidenzia il legame tra passato e presente: quale che sia il suo linguaggio, la fisionomia che assume nel corso del tempo, la musica è sempre un tentativo di giungere alla profondità ultima delle cose. Essa non descrive, non narra, non accetta riferimenti esterni ma, come diceva Schopenhauer, “offre gli universalia ante rem”. E, aggiungeva Adorno, “qui sta il suo aspetto teologico. (…) Essa è l’umano tentativo (…) di nominare il Nome stesso”. Musica assoluta, appunto. Quella che sembra parlarci – nella tradizione come nell’espressività contemporanea – di ciò che nell’uomo è eterno e immutabile, indicandoci quella bellezza ideale che è di quest’arte contenuto inafferrabile eppure, al contempo, evidentemente presente. Pare così semplificarsi, proprio attraverso la struggente bellezza di queste opere, la dibattuta questione di che cosa sia l’assoluto in musica: a prescindere dall’organico per cui è composta, dalle sue specifiche sembianze, dalla sensibilità particolare di ciascuna epoca, non è forse illusorio definire assoluta ogni opera che si mostri capace di condurre l’uomo verso ciò che è essenziale, riportandolo, per così dire, a sé stesso e al desiderio che attraverso i secoli lo muove verso l’altro da sé. Non deve, la musica, dire all’uomo qualcosa, ma può offrirgli in qualche modo tutto, permettendogli di affacciarsi a ciò a cui massimamente egli aspira. Un concerto come questo è un invito a lasciarsi condurre verso la ricerca di quell’Unum che segna l’autentica espressione musicale di ogni tempo.