Opera
L'Orchestra della Rai apre la stagione torinese con l'Eroica
Nel 1806 venne considerata troppo bizzarra e difficilmente comprensibile dal grande pubblico. Oggi il suo valore artistico viene riscoperto nella sua rinnovata bellezza, in un'opera che ha segnato l'addio definitivo al Settecento, decretando l'inizio di una nuova epoca della musica classica
Il segreto della Sinfonia Eroica è forse suggestivamente racchiuso nei due sorprendenti, incisivi accordi che aprono la partitura, quasi rappresentazione di un risolutivo gesto volto a segnare una linea di confine tra due secoli, due sensibilità, decretando l’addio al Settecento e l’ingresso della musica nell’epoca romantica. L’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, in occasione del suo trentennale, con Andrés Orozco-Estrada come direttore principale ha inaugurato la nuova stagione all’Auditorium di Torino portandoci alle soglie del Romanticismo, là dove la musica, lontana ormai dall’epoca dei Lumi, diviene più chiaramente il veicolo della comunicazione di sé, della volontà di porgere all’ascoltatore quel mistero che è l’interiorità dell’essere umano.
“Sono solo parzialmente soddisfatto di ciò che ho scritto finora; d’ora in avanti batterò una nuova via”, aveva confidato Beethoven nel periodo in cui metteva mano alla Sinfonia Eroica. Orozco-Estrada ce la restituisce con il palpabile entusiasmo di chi è sempre dinanzi a qualcosa di nuovo (la musica è l’arte che vive solo nel presente) e pare sottolineare quei passaggi che all’epoca contribuirono a lasciare il pubblico esterrefatto: era l’affacciarsi alla storia di un linguaggio inedito, di quella che Giorgio Pestelli definisce una “musica di incendiaria novità”, un’espressività che parve “al di là delle possibilità di comprensione del grande pubblico”. I contemporanei vi udirono un “eccesso di frastuono e bizzarria”, definendola una “fantasia molto elaborata, ardita e selvaggia” e persino gli amici dell’autore “negarono che il lavoro potesse avere un valore artistico”. Commenta Walter Riezler: “E’ subito chiaro che qui comincia una nuova epoca della musica classica”.
E’ il culmine di una serata apertasi con l’esecuzione di un’altra straordinaria pagina di Beethoven, quel Concerto per violino e orchestra attraverso cui il solista Nikolaj Szeps-Znaider ci ha donato i riflessi di una serenità – dimensione assai rara nella biografia dell’autore – che si manifesta nella spiegata cantabilità della melodia e che potrebbe definirsi dominante se non fosse per quelle misteriose cinque pulsazioni che, pronunciate dal timpano sull’incipit del primo movimento, si riaffacciano qua e là ripetutamente accompagnandone con incombente, impenetrabile inquietudine l’intera trama. Pare un viandante, questo violino, che dialogando con l’orchestra esplora gli angoli più inaccessibili e riposti dell’anima. Quando l’opera fu presentata, nel 1806, il violinista che ne fu primo esecutore ebbe l’ardire di proporla in modo frammentario affiancandovi, per smania di gloria personale, altre virtuosistiche prove di abilità. Leggerezza ai tempi non insolita, da cui derivò un mancato riconoscimento che solo il pieno Romanticismo, trent’anni più tardi, avrebbe provveduto a colmare, riscoprendo una partitura che gli interpreti di questa serata ci hanno restituito con suggestioni d’inedito fascino, nella sua sempre rinnovata bellezza.