L'Intervista
Le feste di Capossela. Balli, ringraziamenti, preghiere. E Tom Waits
Un disco (e un docu-film) per le Feste e per le malinconie di ogni dopo. "Nella festa c'è il ‘Tico tico’, ma anche i fantasmi della vita che passa. Però la nostalgia è di destra, preferisco la gratitudine". Coriandoli, bicchieri e il sentimento dell'attesa. E l'epica (che non c'è) degli emigrati italiani in Germania
Con Bublé ci azzecca davvero niente e ha poco in comune pure con Mariah Carey. Anche se da oggi forse una cosa c’è: Vinicio Capossela – chi non lo conosce, lui e i suoi cappelli? Eclettico e rebetiko cantautore da circo e cantina, genio di periferia, animale folklorico e creatura a fiato – questa volta sforna un disco di Natale. Anzi, un disco per le Feste e per le malinconie di ogni dopo festa. “SCIUSTEN FESTE N. 1965” ha una storia lunga: “Abbiamo iniziato a fare concerti nel periodo delle feste a partire dal 1999 e da allora si è continuato a ogni dicembre per 21 anni”, dice Capossela. “C’è voluto il confinamento pandemico per trovare il Natale libero da dedicare alla sua registrazione”. Una storia celebrata anche nel docufilm “Natale Fuori Orario”, costruito da Gianfranco Firriolo con riprese fatte dal 2008 al 2023 al Fuori Orario, un locale sui binari di Taneto di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, che ha un vecchio treno parcheggiato davanti e tanti viaggi dentro. L’album ora comincia a girare, insieme al suo autore e ai suoi cappelli, da Cesena ad Aosta e giù fino a Molfetta, passando per grandi e piccole città ma toccando pure Bruxelles, Barcellona e Berlino. Raccoglie quindici canzoni tra inediti, riscritture, rivisitazioni e reinterpretazioni di standard per le feste, “canzoni solstiziali, di coriandoli inzuppati di birra, di lettere d’amore e di resa dei conti in quel periodo dell’anno in cui si rimbalza nella vita come dentro a un grande flipper”. E forse contiene anche un sentimento che in questi ultimi anni è andato molto di moda, la nostalgia. C’è un’atmosfera da fine di un mondo, più che da fine anno. Qual è il mondo che se n’è andato? Cosa rimpiange Capossela?
“Nostos -algia, il dolore del ritorno. Ritornare a qualcosa ti ferisce sempre un po’ il cuore. Nel film immaginiamo di tornare alle baldorie di gioventù al Fuori Orario, il migliore modo che ho trovato per esorcizzare le feste e deviarle dal loro binario. Ma è un pretesto narrativo. La nostalgia è di destra, preferisco la gratitudine, che ha un’etimologia anche migliore: c’è dentro la gratuità, il dono. Provare gratitudine è un sentimento attivo, la nostalgia è passiva. Non rimpiango: ringrazio”.
Nella festa c’è qualcosa di malinconico. E’ l’altra faccia del chiasso e del baccano e delle risate e degli eccessi.
“La bile nera è esistenziale, mentre la festa ti lascia svuotato delle forze e dell’umore. La festa ha tanti risvolti, il ‘Tico tico’, ma anche i fantasmi della vita che passa, la solitudine. Ogni festa ha in sé la dissipazione, l’andare oltre i propri limiti. E ha un costo: il giorno dopo sei uno straccio. Io sono il più stracciato perché sono sempre l’ultimo ad abbandonarla. Il giorno dopo brancoliamo, spazzati via come bicchieri di plastica vuoti, a cercare un pranzo e via, verso la seconda data. In fondo ‘la seconda è da facchini’, diceva Califano, che però parlava di sesso”.
A proposito di notti sfrenate, il Califfo diceva anche: “Sono andato a letto cinque minuti più tardi degli altri, per avere cinque minuti in più da raccontare…”.
“Facendo concerti non riesci a ritirarti. E’ come se ci fosse una tale messa in circolo di stimoli, di abbracci… Un darsi, che rende a me impossibile la fuga”.
Se dico “festa” qual è il suo primo ricordo? Una liturgia, un concerto?
“La copertina di un disco di Louis Prima, ‘The Wildest Show at Lake Tahoe’, con le luci al neon del casinò e questi tre che suonano come forsennati”.
E un ricordo privato?
“Un albero molto spelacchiato, con una sola fila di lucine, di quei colori che hanno i regoli o le spie delle auto. E ho in mente una fantasticazione su queste lucette, mentre intorno a me non succedeva niente. L’infanzia e il sentimento dell’attesa”.
E il guastafeste in fondo è un realista.
“Sì, denuda il re, rompe l’incantesimo, si sottrae a quella convenzione a cui abbiamo aderito tutti: la festa come gioco. E questo lo rende odioso”.
Capossela è un guastafeste?
“No, anzi sono un gran preparatore di feste, anche quelle di piccolo cabotaggio. E’ una delle cose che mi riescono meglio”.
Perché una preghiera come primo brano?
“E’ una preghiera laica, un trovarsi e farsi forza. Dice: se ci sei non giudicarmi, vieni a fare un po’ di strada con me, mentre le tenebre e gli eventi precipitano. ‘Abide with me’, nella traduzione di Jacopo Leone diventa ‘Sopporta con me’ e non ‘Resta con me’, come si usa spesso. Portiamo sulle spalle un basto. Possiamo abbracciarci ma dobbiamo sorreggerci. Non c’è un intento politico in un disco delle feste, ma non trascura il racconto del mondo. Nel Natale cristiano c’è una capanna e intorno una strage di bambini. Non ci si può dimenticare di Erode, anche se questo non cancella l’illusione della cometa”.
Parlando di traduzioni, in questo album c’è un brano di Tom Waits, “Christmas Card from a Hooker in Minneapolis”. Nella sua versione Omaha diventa Scandiano: come mai? E perché non l’ha mai interpretato prima, lei che è il Tom Waits italiano?
“I primi vagiti musicali li ho fatti davanti a un pubblico che beveva birra, con la mia fidanzata dell’epoca. Il nome del duo era ‘Blue Valentine’, come il disco da cui è tratto quel pezzo, che è tutto pieno di piccoli noir, scritti magistralmente. Il bacillo di Tom Waits si è inoculato in me fin dalla gioventù. E’ una fatuagione, è come essere morsi dal ragno. Tom Waits non è la colonna sonora della tua vita, sei tu colonna umana della sua musica. Io sono stato tarantolato da piccolo, ma sono passati anni e la distanza aiuta. C’è abbastanza strada in mezzo e un buon grado di sincerità e spudoratezza che permettono di non correre il rischio dell’emulazione. Come i compagni più reali sono quelli letti sui libri, così quella canzone me la sono portata a casa e l’ho fatta tornare a Scandiano. E torna l’emozione che nasceva nel freddo di un inverno in Emilia, quando da ragazzi accendevamo l’autoradio e c’erano Radio libera rock, Mondo radio rock station. E c’era quella voce e le sue canzoni”.
A proposito di freddo, ricominciamo dal titolo: Sciustenfest è una traslitterazione maccheronica dal tedesco Schützenfest, fatta da suo papà. Che rapporto ha con la Germania?
"Quasi nessuno perché a circa un anno, senza avere imparato neanche una parolaccia, sono rientrato in Italia. Sono figlio di quella manodopera pangermanica, ma gli italo-americani hanno avuto più tempo di elaborare, gli italo-germanici no: non c’è epica. Però da bambino invidiavo molto le biciclette dei miei cugini, tedeschissimi: avevano le gomme piene e quindi non bucavano mai. Da piccolo ero molto fiero di essere nato in Germania. E una volta anche da grande, quando ho scoperto che anche Bukowski era nato ad Andernach".