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Dizzy Gillespie e il sogno di portare il jazz alla Casa Bianca

Paolo Valentino

Dall'assistenza saniaria gratuita allo scioglimento dell'Fbi, con una squadra di governo piena dei migliori musicisti di quell'epoca: promesse e idee del famoso jazzista candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Cosa può raccontare quella pazza campagna elettorale all’America di oggi

Voleva ribattezzare la White House in “Blues House”. Prometteva di dare istruzione e assistenza sanitaria gratis a tutti i cittadini e un alloggio a chiunque non lo avesse. Voleva ritirare i soldati americani dal Vietnam e sciogliere l’Fbi, abolire la tassa sul reddito e trasformare in lotteria nazionale il Numbers Racket, detto anche Italian Lottery o Mafia Lottery, la tombola illegale che all’epoca impazzava nei quartieri poveri e operai delle città degli Stati Uniti. Avrebbe però aumentato le tasse sui juke-box e con i proventi avrebbe finanziato i musicisti, in primis i jazzisti. Non ultimo, prometteva di mandare sulla luna un astronauta nero.


La squadra era pronta: Miles Davis, esperto in segreti, sarebbe stato il capo della Cia, Duke Ellington sarebbe andato al dipartimento di Stato per guidare la politica estera, coadiuvato da due inviati molto speciali: Thelonious Monk come ambasciatore itinerante e Mary Lou Williams da ambasciatrice in Vaticano. Louis Armstrong, che veniva dalla campestre Louisiana, sarebbe diventato ministro dell’Agricoltura. A Max Roach avrebbe affidato il Pentagono bilanciato da Charles Mingus, per il quale sarebbe stato creato appositamente un ministero della Pace. A Peggy Lee sarebbe andato il dipartimento del Lavoro e a Ella Fitzgerald quello delle Politiche sociali. Ray Charles avrebbe diretto la Biblioteca del Congresso. L’Attorney General sarebbe stato il leader afroamericano della Nation of Islam, Malcom X (“perché è uno che è meglio avere dalla nostra parte”). E in un beffardo ossequio al principio del team of rivals, amato da Lincoln, avrebbe spedito il governatore razzista del Mississippi, Ross Barnett, a fare il capo della US Information Agency… in Congo. A guidare l’Amministrazione dallo studio ovale, ci sarebbe stato lui: Dizzy Gillespie.

 

                                      


Accadde nel 1963. Pochi mesi prima dell’assassinio di John F. Kennedy a Dallas, uno dei giganti del jazz annunciò la sua candidatura da indipendente alla presidenza degli Stati Uniti. Non fu solo una trovata pubblicitaria. Come avrebbe scritto nelle sue memorie, “ho fatto campagna e mobilitato le persone, volevo vedere quanti voti avrei preso veramente, volevo sapere quante persone pensavano che sarei stato un buon presidente”. L’America all’inizio sorrise. Ma si accorse molto presto che il trombettista, uno dei padri del bebop, faceva sul serio.


E’ vero però che tutto era iniziato con una gag, tipica del personaggio. Al pari di Louis Armstrong e Fats Waller, Gillespie infatti non è stato soltanto un grande interprete e un’icona del jazz, ma anche uno straordinario showman. Di lui, Bill Charlap, pianista e suo contemporaneo, diceva che “era così divertente sul palcoscenico, che spesso questo metteva in ombra quanto fosse brillante e bravo come musicista”. Tant’è: nel febbraio del 1963 l’agenzia che lo aveva sotto contratto iniziò a stampare migliaia di button, le spille che accompagnano ogni candidato americano, con la scritta “Dizzy for President”, che venivano venduti ai suoi concerti.


A cambiare le cose, convincendo Gillespie a lanciarsi veramente nell’arena elettorale, furono gli eventi di un anno drammatico e tragico per la comunità afroamericana, in piena lotta per i diritti civili. Il 1963 fu segnato da delitti atroci e spietate repressioni delle manifestazioni di protesta, organizzate in tutto il sud degli Stati Uniti contro la segregazione razziale, ancora diffusamente praticata cento anni dopo l’entrata in vigore del Proclama di Abraham Lincoln che aveva abolito la schiavitù. In giugno, la stessa notte in cui John F. Kennedy tenne dallo studio ovale il famoso discorso televisivo nel quale annunciava che avrebbe spinto per la piena concessione dei diritti civili ai neri, l’attivista afroamericano Medgar Evers venne ucciso a Jackson, in Mississippi, con un colpo di fucile alla schiena. Il colpevole, un membro del Ku Klux Klan individuato sin dal primo momento, sarebbe rimasto in libertà fino al 1994, quando il processo venne riaperto e fu finalmente condannato. Il 28 agosto ebbe luogo la Marcia su Washington per il lavoro e la libertà, che portò nella capitale federale oltre 250 mila persone e venne conclusa dalla celebre orazione del reverendo Martin Luther King “I Have a Dream”, nella quale invocava la fine del razzismo e la pacificazione tra bianchi e neri. Ma due settimane dopo, a Birmingham, in Alabama, una bomba scoppiò in una chiesa uccidendo quattro bambine afroamericane. Fu una strage orrenda, rimasta a lungo impunita grazie a un processo fasullo, apertamente ostacolato e inquinato dal governatore razzista dello stato, il democratico George Wallace, che aveva già annunciato di volersi candidare alla Casa Bianca nelle elezioni dell’anno successivo. Anche qui il colpevole, un altro membro del Kkk, la fece franca fino al 1977, quando venne condannato.


Quella di Birmingham fu probabilmente la molla decisiva, che spinse Gillespie il 21 settembre, dal palco del Festival di Monterey, a fare il grande passo: “Voglio essere il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Perché abbiamo bisogno che ce ne sia uno”, annunciò in apertura della sua esibizione. Per l’occasione, aveva pure preparato un inno per la campagna. Nel repertorio da eseguire quella sera, infatti, c’era anche “Salt Peanuts”, un grande classico del bebop. Gillespie chiese al cantante e paroliere della band, Jon Hendricks, di modificarne il testo. Così, “Salt Peanuts! Salt Peanuts!” divenne “Vote Dizzy! Vote Dizzy!”.  I versi in rima recitavano: “You want a good President who’s willing to run? / You wanna make Government a barrel of fun? /Your politics oughta to be a groovier thing? / So get a good President who’s willing to swing”, “Volete un buon presidente che vuole candidarsi? / Volete che il governo sia divertente? / Volete che la politica sia più interessante? / Allora sceglietevi un buon presidente che sia disposto a muoversi”, dove però swing è anche uno stile del jazz.


A quel punto la campagna prese il largo. Dizzy aveva nominato general manager Jean Gleason, moglie del noto critico musicale Ralph J. Gleason, che qualche anno più tardi sarebbe stato uno dei fondatori del mensile Rolling Stone, anche lui molto attivo nel sostenere la candidatura. La scelta strategica fu di evitare le primarie e di correre da “write-in candidate”, cioè un candidato del quale poter scrivere il nome sulla scheda elettorale. In realtà i suoi sostenitori lanciarono una petizione ufficiale per averlo candidato ufficiale indipendente almeno in California, che raccolse più di mille firme, ma il tentativo non riuscì. Più successo ebbe la fondazione della John Birks Society, così chiamata dai due primi veri nomi di Gillespie, ma anche come contraltare alla John Birch Society, organizzazione dell’estrema destra razzista allora in grande crescita. Diventò attiva in venticinque stati, con centinaia di volontari impegnati a tempo pieno.


La tragedia di Dallas, il 22 novembre, mise la sordina per qualche settimana alla campagna “Dizzy for President”, che però riprese con ancora più vigore all’inizio del 1964. Se ne accorsero i grandi media americani, che cominciarono a coprirla in modo più regolare. Il National Observer pubblicò una lunga intervista a Gillespie, dove formulava in modo più specifico il suo programma, fin lì pieno soprattutto di suggestioni. Voleva ristabilire relazioni diplomatiche con Cuba e aprire alla Cina, in questo dimostrando di essere lungimirante anche in politica estera: Richard Nixon e Henry Kissinger lo avrebbero iniziato a fare solo nel 1971 con la diplomazia del ping-pong. “Possiamo ignorare 700 milioni di cinesi (la popolazione cinese del tempo n.d.r.) mentre il nostro mercato rimpicciolisce?”, si chiedeva nei suoi discorsi. “Pensate: ci svegliamo un giorno e abbiamo 770 milioni di persone in più cui vendere qualcosa. E poi, immaginate quanti festival di jazz possiamo organizzare laggiù. Ogni tournée potrebbe andare avanti per dieci anni!”. E poi le proposte fiscali, con la fine dell’imposta sul reddito, compensata dalla riduzione della spesa pubblica derivante dall’abolizione del Fbi, dal ritiro dal Vietnam o dalla nuova Lotteria nazionale. Dizzy voleva portare avanti negoziati per il disarmo, anche qui in anticipo sui tempi. Sarebbe stata ovviamente una Repubblica del Jazz, che President Gillespie avrebbe introdotto come materia d’insegnamento nelle scuole americane. I night club dedicati alla musica sincopata sarebbero stati sostenuti dallo stato, tutti attrezzati con pianoforti da 440 Hz e con i musicisti pagati dall’erario.


Anche il principale avversario, il candidato repubblicano arci-conservatore Barry Goldwater, prese Dizzie sul serio, al punto che si preoccupò subito di marcare le distanze, dichiarando ufficialmente che il suo jazzista preferito era il trombettista Turk Murphy. L’establishment democratico di Washington ignorò invece platealmente la campagna di Gillespie, che considerava un’insidia fastidiosa per la grande macchina organizzativa che doveva assicurare la rielezione di Lyndon Johnson, nominato presidente subito dopo l’assassinio di Kennedy. Soprattutto, Dizzy rischiava di distrarre gli elettori afroamericani, su cui Johnson puntava per il suo successo, con la promessa (poi mantenuta pochi mesi dopo la rielezione) di approvare il Civil Rights Act, che avrebbe dato loro la pienezza dei diritti civili. In realtà, uno degli scopi non dichiarati della campagna fu proprio quello di premere sul Partito democratico, che all’epoca aveva nelle sue file tutti i segregazionisti del sud, perché abbracciasse senza più indugi la battaglia per l’emancipazione dei neri.   


Ci fu comunque un’eccezione fra i democratici, quella di Barbara Jordan, allora attivista dei diritti civili, che si schierò apertamente per il musicista. Jordan è una figura leggendaria nella storia della comunità nera americana. Giurista di formazione, aveva lavorato nel team della campagna di John Kennedy e nel 1966 sarebbe diventata la prima donna afroamericana a essere eletta nel Senato del Texas. Nel 1972 venne eletta alla Camera dei rappresentanti, dove fu protagonista nella procedura di impeachment contro Richard Nixon sull’onda dello scandalo Watergate. Tenne il discorso principale alla Convenzione democratica del 1976, quella che nominò candidato Jimmy Carter, di cui venne considerata una possibile vicepresidente. Nel 1994 Bill Clinton l’avrebbe onorata con la Presidential Medal of Freedom.


Ma proprio quando l’America iniziò a prendere sul serio “Dizzy for President”, il musicista ritirò la candidatura e pose fine alla sua campagna, che nel frattempo aveva perso spinta propulsiva. Avvenne a metà del 1964. La favola breve era finita. Gillespie annunciò il suo appoggio a Lyndon Johnson, che a novembre venne rieletto a valanga. Ci avrebbe riprovato di nuovo nel 1971, questa volta indicando il pugile Mohammed Ali come suo segretario di Stato. Non decollò neppure per un fuggente attimo. “You cannot be the new thing twice”, non puoi essere una novità per due volte. Ma Dizzy aveva di nuovo visto giusto: ci sarebbe voluto un altro decennio, ma nel 1981 un altro showman, l’ex attore dei B-movie Ronald Reagan, sarebbe entrato alla Casa Bianca.


Alla vigilia di un voto presidenziale, che si annuncia come il più drammatico e decisivo di tutta la storia americana, dove secondo molti è in gioco addirittura il destino della democrazia, la memoria della campagna donchisciottesca di Dizzy Gillespie si perde nel tempo ma forse può ancora suggerirci qualcosa. Come dice un grande vecchio del jazz, Sonny Rollins, oggi ultranovantenne, che la visse di persona e fu suo amico, “quell’impresa mi piaceva per la passione e il suo senso della missione, a prescindere dal fatto che fosse una trovata pubblicitaria o il tentativo di guardare seriamente alla società e alla vita dell’America”. Al tempo della totale polarizzazione, non solo in America, un po’ più di jazz, leggerezza e disponibilità ad ascoltare renderebbero sicuramente migliori la politica e con essa le nostre vite.