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il lutto

La grandiosa vita di Quincy Jones, profeta di un'epoca rimasta senza bussola

Stefano Pistolini

L’olimpo musicale del ’900 perde un padre fondatore capace di declinare in tutti i linguaggi possibili la propria competenza e la visione della cosa giusta da fare, per iniettare il carburante necessario in una produzione destinata a sopravvivere per sempre

Un altro commiato che, parlando di musica e più in generale di cultura popolare, segna l’ormai definitiva cesura del nostro presente coi quarant’anni conclusivi del Novecento. Muore a 91 anni Quincy Jones, uomo totale della musica e, ancora di più, dello showbiz americano e va in archivio la parabola di uno dei principali creativi di un mondo della rappresentazione che non esiste più per come l’abbiamo conosciuto – nel quale talento, genio, artigianato, sperimentazione, idee erano i vettori e l’oggetto della discussione e nel quale la dimensione industriale arrivava a rimorchio, per non parlare dell’ossessione per la serializzazione, per quel “genera da solo la tua musica” che adesso spaccia il consumismo sotto forma di autarchia


La carriera di Jones, ricostruita per passaggi, è implausibile, secondo la metrica contemporanea. Nativo di Chicago, ma educato musicalmente a Seattle, a 14 anni suona la batteria nello stesso gruppetto in cui milita Ray Charles, che ha due anni più di lui e nel 1948 ha la ventura di accompagnare Billie Holiday. Sbarcato a New York entra nella formazione di Lionel Hampton, un ensemble di jazzisti neri tra i quali l’uso di droghe è all’ordine del giorno, spacciate, quando si passava da Detroit, da un tipo a cui piace farsi chiamare Malcolm X. Mettendo a punto la sua qualità di multistrumentista, Quincy incrocia le strade di tanti talenti che si stanno facendo notare: suona la tromba per il giovane Elvis Presley, stringe amicizia con Charlie Parker e Miles Davis, di cui decenni più tardi, nel 1991, organizzerà l’ultimo spettacolo, due mesi prima della morte. Sempre con la band di Hampton trascorre lunghi periodi in Europa, a Parigi in particolare, dove fa conoscenze interessanti: Pablo Picasso, James Baldwin, Joséphine Baker.

Ha solo 23 anni quando Dizzie Gillespie lo nomina arrangiatore e capobanda della sua formazione. Poi prova a mettersi in proprio con una sigla sua ma gli va male, perde un sacco di soldi e per ripagare i creditori comincia a fare quello che diventerà il mestiere che lo porterà sulla vetta del mondo musicale: la produzione. Lavora per Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Sarah Vaughan e Sammy Davis Jr e intanto si dedica con successo alla stesura di colonne sonore per il cinema, specialità che negli anni successivi gli darà grandi soddisfazioni con titoli come “La calda notte dell’ispettore Tibbs”, “Getaway”, “Il colore viola”. Nel 1958 è Grace Kelly a chiamarlo a supervisionare un evento di beneficenza con Frank Sinatra, con il quale stringe subito una grande amicizia e una sintonia artistica che li renderà inseparabili fino all’ultimo lavoro di The Voice, l’album del 1984 “L.A. is My Lady”. Sentendosi abbastanza sicuro da ritentare la fortuna con un progetto solistico, Quincy rimette insieme una band a suo nome, chiamando a farne parte jazzisti superstar come Charlie Mingus, Art Pepper e Freddie Hubbard. Emerge così sempre più chiara la vocazione che rende unica la sua figura: un approccio musicale non legato a un genere, a uno stile, o a un suono, bensì la capacità di declinare in tutti i linguaggi possibili la propria competenza e la sua visione della cosa giusta da fare, per iniettare il carburante necessario in una produzione musicale. Passano per le sue mani i lavori di George Benson, Patti Austin, James Ingram e Quincy si toglie anche la soddisfazione di spedire in vetta alle classifiche un paio di album a suo nome, dal sound distintamente funk, come “Body Heat” (1974) e “The Dude” (1981).

E’ a questo punto che la sua traiettoria incontra quella di un astro nascente della black music nella sua particolare destrutturazione che ne avrebbe fatto un prodotto globale ed ecumenico: Michael Jackson. Quincy legge nel ruvido talento di MJ le qualità necessarie ad elevarlo a popstar assoluta: la sua produzione di “Thriller” (l’album più venduto della storia), “Off the Wall” e “Bad” è un capolavoro di versatilità, eleganza e di trasposizione in musica di un tempo intriso di frenetico edonismo. Quincy esporta il suono black fuori dall’appartenenza razziale rendendolo consumabile e elettrizzante per gli ascoltatori di tutto il pianeta.  E i riconoscimenti fioccano: è il profeta  del pop e il crisma di questa nomination passa attraverso l’incarico di creare l’irripetibile superband che nel 1985 dà vita all’inno-evento “We Are the World”. Ormai Jones può espandere il suo impero ben oltre i confini della discografia: con la Quincy Jones Entertainment produce la sitcom “Willy, il Principe di Bel-Air” che manda in orbita la carriera di Will Smith, poi fonda la sua media company Qwest Broadcasting e riceve dal Time l’incarico di aprire un ambizioso magazine interamente dedicato alla black music, Vibe. 


Col nuovo millennio, in un certo senso, è il mondo della musica ad allontanarsi dalla sua percezione ideativa e realizzativa.  Nel pieno della rivoluzione del suo hardware e della materia prima che ne esce oggi, la figura di Quincy assume la dimensione di un nume tutelare, incarnazione della sapienza assoluta, ma anche emblema di un suono originale ormai costretto nella definizione di “classico”. Lui continua fino alla fine a inanellare riconoscimenti (80 nomination ai Grammy), figli (sette) e compagnie femminili (comprese avvenenti teenager quando era già oltre i 70). Destinato a perenne sopravvivenza nell’arca della gloria musicale, lo si guarda come un grande padre fondatore. Di una nazione che però anche nella musica, come in altre cose anche più serie, sembra da un pezzo aver perso la bussola.
 

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