Duke Revolution
Cinquant'anni senza Duke Ellington, che aveva la musica come unica signora e padrona
“Music Is My Mistress” il titolo della sua autobiografia. In mezzo secolo di carriera arrivò a scrivere oltre 1.300 partiture. A noi il compito di far fruttare la sua eredità
È il 29 aprile del 1974 e tutto il mondo sta levando il calice: Duke Ellington compie 75 anni. Un genetliaco che è celebrato con particolare devozione e amorevolezza perché il compositore è ricoverato presso il Presbyterian Hospital di New York e tutti sanno che quel tumore non gli avrebbe lasciato scampo. Così, mentre la Duke Ellington Orchestra raccolta nella St. Peter Church intona alcune sue pagine sacre, Frank Sinatra lo sommerge di fiori, il discografico Norman Granz di caviale e la famiglia di attenzioni. Il Duca apprezzò ma non si crogiolò. Non ne aveva il tempo. Circondato da arrangiatori col pentagramma in mano e l’ausilio di un pianoforte elettrico posizionato a fianco del letto, doveva completare un’opera comica e un balletto. Doveva fare una selezione delle musiche registrate nell’Abbazia di Westminster per il disco Third Sacred Concert. Doveva istruire il figlio Mercer, che suonava come trombettista nella band, su come amministrare l’orchestra. Doveva. Perché Lei glielo aveva ordinato. Il titolo dell’autobiografia non lascia dubbi su chi fosse la tiranna: Music Is My Mistress. Le traduzioni italiane hanno annacquato “mistress” a una blanda “signora” quando i termini che si attagliano sono invece “padrona”, “dominatrice”. Per tutta la sua vita il Duca le diede prove di incondizionata lealtà. Poche ore prima di quella notte di cinquant’anni fa, quel 24 maggio 1974 quando il sipario calò definitivamente, Ellington era ancora sollecito nell’esaudirne gli ordini. In mezzo secolo di carriera arrivò a scrivere oltre 1.300 partiture, il più vasto catalogo dell’intera storia del jazz e uno dei più nutriti del Novecento.
Il testamento dovrebbe rubricare tra i beni più preziosi dell’eredità del compositore questa sua drammatica abnegazione. Ellington, per dirla con Puccini, ha vissuto d’arte ma a differenza di Tosca non ne aveva alcuna consapevolezza; la sua esistenza e la musica erano perfettamente coincidenti da divenire indistinguibili. Non è un caso che, quando un giornalista chiese all’anziano Duca se avesse intenzione di ritirarsi, il Nostro, un poco allibito, rispose con una domanda: “Ritirarmi da cosa?”.
Nel suo lascito c’è anche altro ma prima di proseguire la lettura dei documenti testamentari ricordiamo chi fu Edward Kennedy Ellington.
Era nato nell’ultimo anno dell’Ottocento in seno alla più grande comunità afroamericana degli Stati Uniti, ossia Washington (Harlem era ancora da venire). Borghese, si conquistò il soprannome Duke per i suoi modi raffinati e ben prima che la musica lo chiamasse a sé. Tra l’altro, quando la musa lo invitò, lo fece con una voce troppo flebile ed Edward non la sentì. Da piccolo fu protagonista di un fiacco saggio di pianoforte al punto che Miss Clinkscales (nomen omen) fu costretta a metterci la mano sinistra per aiutarlo ai bassi. Non rimproveriamolo. Lo avevano spedito i genitori a prender quelle lezioni e come tutti i bimbi costretti a fare ciò che non desiderano…
“East St. Louis Toodle-Oo” è il disco che nel ’26 scuote Harlem. Un losco tema, poi la seconda melodia riporta tutto in chiave ironica
Poi, da adolescente, scoprì il ragtime. La trappola scattò. Si dedicò anima e corpo per riuscire a suonare quelle complicate figurazioni scegliendosi come modelli virtuosi quali J. P. Johnson e Willie “The Lion” Smith. Ormai sotto incantesimo della mistress, lasciò la scuola e nella primavera del 1923 partì alla volta di Harlem per proporsi come pianista e compositore. I primi tempi furono duri. Poi arrivarono gli ingaggi da leader e infine, dal 1924, anche i dischi. La sua non era ancora una formazione che avrebbe potuto avere la meglio sulle orchestre nere più rinomate, e anche le incisioni erano acerbe. Poi, nell’autunno del 1926, Harlem registrò un’imprevista scossa. L’epicentro era una partitura che il giovane washingtoniano aveva messo su disco col titolo di East St. Louis Toodle-Oo.
Su un fondale sinistro una tromba invoca un losco tema. La trama pare raccontarci qualcosa di torvo. Poi una guizzante seconda melodia, che si staglia giocosa a contrasto, instilla il sospetto che il tutto sia da leggersi attraverso la lente dell’ironia, che quei tre minuti di musica forse non volevano essere davvero minacciosi ma restituirci la parodia della minaccia. Noi ce lo stiamo ancora chiedendo, dopo cento anni. I jazzisti contemporanei di Ellington invece, meno interessati alla semiotica e più prosaicamente intenti a sgomitare nel gremitissimo panorama sonoro dei roaring Twenties, una cosa l’avevano capita all’istante: in città c’era un nuovo sceriffo. Il Duca nei mesi successivi continuò a produrre opere di valore arrivando nel dicembre del 1927 a sedere sul trono dell’ambìto Cotton Club di Harlem. Dal principio degli anni Trenta era già una celebrità e un compositore tra i più intriganti e originali d’America. Anche in Europa in molti lo tenevano in considerazione, il nostro Massimo Mila avrebbe scritto parole d’elogio.
In quell’incipit di carriera la sua poetica si era perlopiù delineata. Lì dentro c’è parte dell’eredità che ci spetta.
Ad esempio, il Duca aveva intuito che l’ispirazione non abita solo l’irrazionale e il fortuito, luoghi a cui non ci è dato accedere, ma anche territori raggiungibili, se avvicinati con l’adeguato mezzo di trasporto.
Ellington, che aveva una buona mano come pittore, era sinestetico: precise corrispondenze fra colori e alcune altezze musicali
Talvolta il suo veicolo fu il colore. Ellington, che aveva una buona mano come pittore (a scuola eccelleva), era sinestetico: per lui alcune altezze musicali suonate da determinati strumenti avevano precise corrispondenze in colori. A partire dal 1930 si prodigò a vivacizzare il pentagramma con quelle nuance che divennero non solo il soggetto della composizione ma anche il mezzo per stimolare la fantasia. Mood Indigo, Sepia Panorama, Magenta Haze e (il sinestetico) Piano Pastel non sono che alcuni dei molti titoli colorati. Alcune di queste variopinte partiture sono capolavori, appunto, timbrici.
In altre occasioni scelse un diverso stratagemma: si appellò alla parola scrivendo racconti di suo pugno (perlopiù in prosa, più raramente in poesia) che non ambivano a divenire versi musicali o melologhi (che pure concepì), sarebbero infatti rimasti dietro le quinte a pungolare l’ispirazione. Alcune di queste narrazioni sono sopravvissute sulla pagina, come il dattiloscritto di ben 33 facciate che è alla base della suite Black Brown and Beige, altre sono state catturate nei dischi dal vivo. Durante i concerti il bandleader era solito introdurre le sue partiture strumentali con visionarie fabulazioni. The Little Purple Flower ci ha raccontato essere la vicenda di un fiore che, colto dalla campagna e poi portato in città, si sarebbe dedicato alla professione medica diventando un pezzo da novanta. Davvero lisergico!
Certamente nella storia della musica altri compositori hanno percorso i medesimi sentieri del Duca per trovare l’estro. I sinestetici non mancano, da Sibelius a Messiaen sino al contemporaneo Michael Torke (che come Ellington stravede per il blu), mentre quelli interessati alla parola scritta rientrano addirittura nella specifica categoria dei compositori di musica a programma. Ma il Duca aveva una peculiare sensibilità sinestetica e la propria idea di musica a programma. In ogni caso, il biasimo degli avidi, smaniosi di mettere le mani su un lascito di tesori ancora più rari, non ha comunque ragion d’essere: la lettura del testamento non è conclusa. Procediamo.
Il compositore era consapevole del proprio talento, ciononostante aveva compreso che se i suoi orchestrali avessero avuto la possibilità di dire la loro, il risultato artistico sarebbe stato ancora più significativo. Il Duca privilegiò quindi gli strumentisti (umani e imperfetti) rispetto al pentagramma (cartesiano e assoluto) e il mondo Ellington si schiuse all’universo Ellingtonia.
Le già citate East St. Louis Toodle-Oo e Mood Indigo sono pagine co-firmate rispettivamente dal trombettista Bubber Miley e dal clarinettista Barney Bigard. Talvolta i musicisti dell’orchestra offrirono l’intera composizione sicuri che Ellington avrebbe rivestito i loro spartiti con la foggia più elegante. Tra questi vi era il trombonista portoricano Juan Tizol, autore di incantevoli numeri quali Pyramid o Moon Over Cuba. Un uomo poi ebbe un rilievo particolare in Ellingtonia, distinguendosi sia come compositore sia come arrangiatore: lui, che si chiamava Billy Strayhorn, all’orchestra consegnava la partitura completa. E’ sua la sigla della band Take The A Train e diverse meraviglie come Chelsea Bridge e Up and Down, Up and Down. Quando nel 1967 Strays, come lo chiamavano gli amici, scomparve a soli 51 anni stroncato da un tumore, Ellington si sentì morire con lui. Lo adorava. Era l’unico uomo in tutto il giro del jazz che lo chiamava col nome di battesimo Edward. A poche settimane dalla dipartita, Ellington decise di radunare la formazione per un disco tributo. Per l’occasione anche il vecchio trombonista dell’orchestra, John Sanders, che ormai era diventato prete, chiese il permesso alla curia per potersi unire alla band. L’LP And His Mother Called Him Bill è una punta di diamante.
In Ellingtonia non poteva mancare lo spazio per i solisti, ognuno con la propria marcata personalità, dal femmineo sassofonista Johnny Hodges al feroce trombonista Joe “Tricky Sam” Nanton, ognuno in grado di sbilanciare la composizione originale verso la propria idea di musica.
Così Ellington, mettendo sottochiave il suo ipertrofico ego al fine di servire la sua mistress con maggior efficienza, imparò a scrivere pensando alle specificità dei propri uomini.
Non solo conosceva le caratteristiche tecniche dei suoi strumentisti ma anche le loro inclinazioni più intime. Luca BragaliniPartiture scritte apposta per loro
Naturalmente anche i vecchi maestri di cappella facevano musica contando sull’ensemble che avevano alle dipendenze; così come Bach dovette fare i conti con il coro che aveva a disposizione (secondo il Kantor di mezze tacche) per dar vita a certe cantate; egualmente Mozart aveva composto dei concerti con in testa un preciso solista (come il cornista Joseph Ignaz Leutgeb che in una partitura, incompiuta, si trovò disseminati triviali motteggi di pugno del compositore – “Ma intoni almeno una [nota], cazzo!”). Il caso Ellington è diverso. Il Duca non solo conosceva le caratteristiche tecniche dei suoi strumentisti ma anche le loro inclinazioni più intime. Sono predisposti verso il blues o le ballad romantiche? Amano i tempi allegri o gli andanti? Sono orientati verso assoli estesi o tendono alla sintesi? Nelle loro improvvisazioni sono ironici, magari irriverenti, o mirano a rispettare la melodia del tema? Queste sono le domande che si poneva Ellington prima di chinarsi sul foglio. Ecco perché il suo concerto per tromba si intitola Concerto for Cootie. Quella partitura non è infatti per lo strumento tromba ma per il musicista Charles Melvin Williams detto “Cootie”. Solo lui avrebbe potuto conferire ai silenti puntini neri del pentagramma una voce sonora e originale.
Il patrimonio ducale comprende ancora molte altre sostanze. Soppesiamo il valore di un ultimo bene.
Per tutta la vita il Duca schizzò ritratti in musica, forse un modo per far coincidere la sua passione per la pittura con quella per la composizione. Alcuni sono magnifici carboncini destinati al pianoforte, per altri ha chiamato a raccolta l’orchestra sinfonica, molti li ha affidati ai timbri della big band. Ha effigiato reali inglesi (The Single Petal of a Rose dedicato alla Regina Elisabetta e Blue Princess alla sorella Margaret) e uomini della chiesa (The Shepherd – padre John Garcia Gensel); musicisti (Portrait of Louis Armstrong o Portrait of Ella Fitzgerald) e personaggi biblici (nel balletto Three Black Kings compaiono Salomone e il Magio Baldassarre). Uscì anche dalla storia per raffigurare i protagonisti delle invenzioni shakespeariane, ritratti raccolti nel disco Such Sweet Thunder, uno dei vertici del Maestro. Sono tuttavia altri i quadri che hanno un particolare peso nell’eredità che stiamo conteggiando. Il primo di questi è datato 1928 e si intitola Black Beauty. Parole pesanti come pietre in un momento della vicenda americana dove il razzismo toccava punte di inaudita violenza. La dedica è tuttavia personale ed è rivolta all’afroamericana Florence Mills che era prematuramente scomparsa nel 1927 (il sottotitolo è infatti Portrait of Florence Mills). Oggi noi inquadreremmo la Mills come soubrette, ma per la comunità nera era colei che, in virtù del suo talento di entertainer, aveva vinto la miseria e aveva conquistato il favore dei bianchi diventando motivo d’orgoglio per l’intera Harlem. Appartengono alla stessa collezione i ritratti di altri afroamericani come il comico Bert Williams (A Portrait of Bert Williams) o il ballerino Bill Robinson (Bojangles). Quest’ultimo, dietro la maschera da zio Tom (lo abbiamo visto danzare nei film con Shirley Temple) nascondeva un convinto attivista. Fu lui, durante la Seconda guerra mondiale, a intercedere presso La Guardia affinché si trovasse rimedio alla segregazione delle truppe afroamericane. Insomma per Ellington questi erano eroi culturali ed era impellente fissarne il ritratto, come se raccontarne la vicenda potesse raddrizzare le storture della storia.
È commovente ciò che scrisse sulle pagine del Washington Star Ralph Ellison, la penna che ha firmato l’opera maestra Uomo invisibile, per i 70 anni del compositore: “Per molti anni Ellington ci ha raccontato quanto siamo meravigliosi, pazzi, violenti, pieni di speranze, nostalgici e (forse) decorosi. Egli è uno dei padri musicali del nostro paese. È un eroe culturale”. Ellison, dopo aver trasformato colui che per tutta la vita aveva affrescato le grandi figure del suo popolo nel soggetto del ritratto, conclude: “Siamo onorati di aver vissuto durante il suo tempo e di aver conosciuto un così grande uomo, un così grande musicista”.
A noi, che abbiamo vissuto un tempo diverso, spetta un compito più ordinario che onorare il Duca. A noi tocca pensare come metterne a frutto l’eredità.
Puccini '24 - Le opere 11