L'intervento
In difesa di Tony Effe. Impedire a qualcuno di parlare è violenza illiberale
La contestazione può essere anche dura, durissima, ma deve avere argomenti, deve tradursi in battaglia di idee. Altrimenti alla fine si tratta di ancora di censura. Ci scrive la ministra per le Pari opportunità
Chi di censura ferisce di censura perisce. Gli stessi che qualche mese fa chiamavano alla lotta contro la destra bigotta e reazionaria che metteva il bavaglio (inesistente) a scrittori e artisti, oggi balbettano imbarazzati. O, prudentemente, tacciono. Il caso Tony Effe ha rivelato tutte le contraddizioni e i contorcimenti di una sinistra che si dibatte tra quel che resta del politicamente corretto e l’indulgenza pelosa, quando non la connivenza, con una parte del suo elettorato, soprattutto giovani. In fondo, “so’ regazzi”, e dunque tolleranza, attenzione e ascolto. Se non che, è proprio sull’ascolto che il gioco si incarta. Quel Tony Effe che nei suoi testi ostenta con fierezza da bulletto il proprio piccolo potere di suprematista maschio, dobbiamo ascoltarlo con rispetto? Dobbiamo dialogare, ritenendolo rappresentativo di pulsioni e sentimenti autentici che serpeggiano tra le nuove generazioni? Ascoltare, insomma, vuol dire permettere che si espanda e si perpetui la stessa cultura patriarcale che tanti denunciano e che cerchiamo di sconfiggere? Se lo facessimo, gli atteggiamenti di possesso e disprezzo nei confronti del femminile sarebbero legittimati.
Inutile poi commentare pensosi, scuotendo la testa, i casi sempre più inquietanti di violenza tra minori, la crescita del disagio e della solitudine tra i ragazzi della generazione zeta e dintorni. Inutile insistere chiedendo a gran voce un cambiamento culturale se lasciamo che i testi dei vari Tony Effe siano le nuove parole da baci perugina dei nostri figli, un’educazione all’affettività – ma non al rispetto – che mescola teneri pupazzi di peluche e insulti grevi. La musica non è mai leggera, ma pesante di richiami simbolici, densa di memorie e suggestioni. Non sono solo canzonette. La colonna sonora che accompagna ogni generazione raccoglie e racconta desideri e sentimenti, è una via d’accesso privilegiata alle emozioni. Allora cosa fare? Luca Ricolfi in un recente articolo ha cercato di fare un po’ di chiarezza lessicale, distinguendo tra le parole. La censura, scrive, c’è quando un’autorità vieta la circolazione di un’opera, o impedisce a un cittadino di esprimere le sue opinioni, non quando non sei invitato a un evento o a una trasmissione.
Vero. Però, aggiunge Ricolfi, come chiamare le azioni di chi impedisce all’altro di parlare, di manifestare liberamente il proprio pensiero in pubblico, come è avvenuto all’università a David Parenzo, o come è avvenuto a me durante la presentazione di un libro? Gli anglosassoni hanno un termine, deplatforming. Ti cancello dalla piattaforma online, ti strappo il microfono, ti costringo a lasciare il podio, insomma nego la tua libertà di parola con qualunque mezzo, dall’invasione di grilli alle grida ininterrotte, fino alle minacce o all’aggressione fisica. Quando ci fu il mio caso, al Salone del libro di Torino, si accese la polemica sulla distinzione tra censura e contestazione, avendo il primo termine un’accezione sempre negativa e il secondo richiamando invece la libertà di manifestare. Ma possiamo chiamarla come vogliamo, il risultato non cambia: se impedisco a qualcuno di parlare, non è una forma di protesta, ma è violenza illiberale e inaccettabile. Silenziare qualcuno è una pericolosa forma di turbativa d’asta nel libero gioco delle opinioni e dei convincimenti, di cui ogni democrazia si nutre. Costringendo l’avversario a tacere non si contestano gli argomenti, le ragioni, le convinzioni che le persone esprimono: per fare questo bisogna lasciarglieli esprimere. Si contestano direttamente le persone. La contestazione può essere anche dura, durissima, ma deve avere argomenti, deve tradursi in battaglia di idee. Altrimenti alla fine si tratta di ancora di censura.
Tornando a Tony Effe, dunque che fare? Se manteniamo questa distinzione, la soluzione è semplice. Contestare, non censurare. A tutte le artiste che così spesso si esprimono contro la violenza maschile, che affermano con giusto orgoglio la propria libertà individuale, che condannano il patriarcato, vorrei dire: bene, questo è il momento di dire pubblicamente che la rima troia, gioia e ingoia fa schifo. E’ il momento di contestare, non di far tacere. Su Tony e gli altri bisogna esprimere un giudizio chiaro, bisogna chiedere a lui e agli altri di argomentare, motivare. Di spiegare quale è la immagine di donna, di relazioni fra i sessi che hanno e che esprimono. Cogliamo l’occasione per aprire una bella battaglia di idee e di parole.
Eugenia Roccella ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità