Nostalgia canaglia. Il gran business dei concerti anniversario
Il successo dei live nei quali gli artisti ripropongono per intero album storici. Il rischio è di castrare la voglia di novità, ma lo spazio per reinventarsi esiste: De Gregori con “Rimmel” ci è riuscito
"Re-make/Re-Model”, recitava il futuristico titolo in apertura del primo album dei Roxy Music di Bryan Ferry, nel 1972: rifare, rimodellare, rileggere, riproporre. Un invito al riuso che periodicamente ha attraversato le sorti della musica leggera internazionale, man mano che il cammino si è allungato nel tempo, traslocando da un millennio all’altro. Perché ciascuno di noi è venuto su con la propria musica, ed è difficile, quasi impossibile, che se ne distacchi, conservandola nel profondo del cuore, prediletta e insostituibile. E poi c’è quella diffusa sensazione che invecchiando si abbia sempre meno bisogno di musica nuova e di un ricambio di stimoli, e che al tempo stesso viga il legame indelebile con suoni, artisti, titoli che ci hanno accompagnato negli anni della formazione. Andrew Budson, neurologo cognitivo e comportamentale americano, autore del saggio “Why We Forget And How To Remember Better. The Science Behind Memory” (Perché dimentichiamo e come ricordare meglio: la scienza dietro la memoria), spiega che la musica possiede la potente capacità di farci percepire trasportati nel passato. E dal momento che col trascorrere del tempo tendiamo sempre più a rievocare cose accadute durante l’adolescenza e la giovinezza, rendendole seminali e “importanti” attraverso ciò che i ricercatori chiamano “urto della reminiscenza”, si è giunti a ipotizzare che proprio quello sia il periodo in cui si definisce in modo portante la nostra identità, mentre il cervello è più aperto che mai alle nuove informazioni, in sincronia con la ricerca di conseguimento dei propri traguardi esistenziali, qualsiasi siano, compresi quelli sentimentali. Ne discende che la musica ascoltata quando eravamo adolescenti e ventenni continuerà ad accompagnarci, facendo scintillare la nostra memoria e restando la prediletta mentre invecchiamo, scatenando i migliori effetti della nostalgia come il tenere lontana la solitudine.
Già, ma che conseguenze provoca questa tendenza “naturale”, nella definizione dei consumi musicali, man mano che si accumulano generazioni, generi, milioni di canzoni, una galassia di dischi pronti a girare? Secondo David Rowell, giornalista d’oltreoceano, per anni al desk del Washington Post, che ha dedicato all’argomento il volume “The Endless Refrain”, l’effetto non secondario di questo fenomeno è che la nuova musica vede progressivamente diminuire le proprie chance di affermazione e circolazione, dal momento che la nostra cultura è sempre più satura di canzoni e suoni del passato.
Proviamo a riflettere: la maggioranza di coloro che hanno più di venticinque o trent’anni ha ancora voglia e bisogno di nuova musica, o quanto ha accumulato nel repertorio emotivo è destinato ad avere per sempre la prevalenza nelle sue scelte? Perché l’effetto di questo dominio del rock, del pop e degli altri generi del passato diventa alla fine anche quella di disincentivare il settore dall’investire in nuove attività. Basta valutare le chiacchere occasionali che si ascoltano sull’argomento tra persone di quella fascia d’età o più grandi per intravedere una risposta. E del resto la predominanza della vecchia musica sulla nuova non è una novità: è sempre stato così, ogni generazione ha nostalgia della musica della sua giovinezza, quella che le riporta alla memoria ricordi ed emozioni legate al momento in cui una certa canzone s’è innestata nella propria coscienza neurale. La variante è che, per un certo periodo di tempo, che coincide grosso modo col trentennio che precede la fine del XX secolo, la musica ha assunto significati altri, che hanno travalicato il gusto, sfociando nella definizione delle identità. Per un po’ la musica è stata più importante di quanto lo sia adesso e questo è un dato di fatto della psicologia diffusa nella cultura occidentale. Per una moltitudine di giovani la musica ha assunto seriamente un ruolo chiave nella propria formazione. Poi, nel bene o nel male, è rimasta lì. In soccorso di questa tesi ritorna il professor Budson: “Il motivo per cui la musica ha il potere di scatenare un viaggio nel tempo è che utilizza gli stessi schemi di attività del cervello; eccitando la memoria, attiva l’esperienza”. Le cose viste, sentite o provate in origine “possono di nuovo essere sperimentate”. E dal momento che una canzone dura diversi minuti e un album quasi un’ora, ecco che questi strumenti “fanno rivivere un ricordo per un periodo di tempo prolungato”.
A questo punto spostiamo la riflessione dal consumo solitario della nostra personale hit parade a un fenomeno che sta molto prendendo piede di questi tempi: i cosiddetti concerti-anniversari, eventi-nostalgia incentrati sulla celebrazione di un particolare album di molto tempo fa e sulla sua esecuzione integrale per platee in attesa della presa di contatto col brivido estatico d’un tempo. Ovviamente il ragionamento psicologico si trasforma in analisi di un fenomeno finanziario e di quello che sembra un rituale che prolifera nell’industria culturale: artisti che portano in tournée in giro per il mondo antichi e gloriosi album della loro produzione, monetizzando il passato e segnando la strada per un business di grandi proporzioni. Nel 2016 Bruce Springsteen ha girato i continenti suonando l’intero album del 1980 “The River”, nel 2017 gli U2 sono entrati nel trend lanciando il tour mondiale che riproponeva “The Joshua Tree”, di cui si festeggiava il trentesimo anniversario. Poi la questione è dilagata: nel 2024 sono arrivati Nas, veterano del rap, con gli show dedicati a rifare “Illmatic” (trentesimo anniversario), i superstiti dei Pink Floyd con svariate iniziative perfino vagamente in conflitto tra loro, i Green Day, con una doppia offerta in cui hanno ripresentato due album campioni di incassi come “Dookie” (trent’anni dopo) e “American Idiot” (venti), risalenti ai tempi in cui gli appassionati si fiondavano nei negozi a comprare l’ultima uscita dei loro beniamini. Adesso perfino Taylor Swift si dichiara interessata all’idea di tematizzare i concerti, incentrandoli sulla rivisitazione di qualche particolare episodio della sua discografia.
Altri annunci di tour dedicati a resuscitare vecchi album di successo arrivano a ripetizione, certificando l’intenzione dello show business di sfruttare per bene il nostro attaccamento a quei momenti del passato. Perché per i vecchi fan questi concerti sono l’occasione per rivivere emozioni mai dimenticate. E per i nuovi rappresentano l’opportunità di connettersi con passaggi culturali che non hanno potuto intercettare ma di cui sentono la mancanza. Per gli artisti infine costituiscono validi strumenti di sopravvivenza, nel momento in cui le entrate degli album e dei live sono in caduta libera. Certo, il punto critico della questione è chiaro: i musicisti diventano jukebox, che suonano ciò che l’analisi dei dati dice che le persone vogliono sentire, senza correre il rischio di spiazzare il pubblico con materiale inedito, o nuove idee. I concerti stessi modificano il loro formato: tutto è previsto e annunciato dall’inizio, scompare il piacere di chiedersi quale canzone verrà dopo, o come verrà suonata, perché nel circuito degli anniversari la promessa implicita è che le vecchie canzoni verranno eseguite in adesione alle vecchie registrazioni.
Del resto se la monetizzazione della nostalgia assume un posto rilevante nel business culturale, dipende dal fatto che la maggioranza dei consumatori vuole di nuovo ciò che gli piaceva prima. E’ un dato sospinto dalla saturazione mediatica dentro la quale viviamo: lo stimolo a connetterci col passato aumenta perché oggi tutto è disponibile in rete. Un clic e possiamo rivivere come ci vestivano ieri, cosa guardavano, cosa ascoltavamo, come se il tempo non esistesse più e i prodotti del passato non siano “retrò” o “vintage”, ma a disposizione del pubblico nell’apposito espositore. Consumare il vecchio non è un atto di bizzarria, di archeologia o di snobismo, ma una scelta come un’altra. E gli anniversary tour sono l’effetto e non la causa di questo scenario, il tributo e la celebrazione di quella certa musica e in fondo, soprattutto, di noi stessi. Il successo allora diviene prevedibile, programmabile e confortante per gli organizzatori: il cliente sa prima cosa andrà a consumare, è a conoscenza dell’offerta a cui corrisponde il biglietto che acquista e il fattore-commozione è incluso nel prezzo, perché l’evento si celebrerà in compagnia di una folla che la pensa come te, coinvolta nella connessione collettiva con gli artisti prediletti.
Qualche osservazione a margine: questo scenario, sebbene risponda a evidenti logiche commerciali, non è facile da digerire per i più seri tra i consumatori di musica, coloro che ricordano quanta aspettativa fosse indirizzata verso le nuove proposte. Si voleva tanto dalla musica. Si pretendeva, si giudicava e, nel caso, si amava. E si andava avanti a cercare. Oggi sembra che il consumatore adulto voglia solo che la sua musica gli resti vicina, risuoni, si faccia riconoscere. E grazie allo streaming tutto è più semplice: possiamo cullarci e saltabeccare in un perpetuo sguardo all’indietro, dicendo che il passato era migliore. Che la musica era migliore. Sciocchezze, è evidente. Ma confortanti, per chi ormai al discorso accorda un’attenzione superficiale. Dimenticando non è questo lo scopo dell’arte. L’arte deve sorprenderci e frantumare le nostre difese. L’arte deve rivelarci qualcosa che non sapevamo. L’arte non è apatia e ripetizione. E i vecchi successi non devono essere i successi di oggi.
Comunque il fenomeno ora arriva anche da noi, coinvolgendo per primi coloro che più degli altri hanno utilizzato il formato long playing: i cantautori. Francesco De Gregori, ad esempio, nel 2025 sarà protagonista di un tour incentrato sul 40esimo compleanno di “Rimmel”, quarto album della sua produzione, quello destinato a consacrarlo come audace riformatore della nostra canzone. Però, a convincere Francesco a intraprendere l’impresa ci sono punti di vista interessanti: “Non penso a ‘Rimmel’ come a un disco-museo, ma come a un lavoro che ha ancora delle cose da dire al presente, offrendosi all’esplorazione proprio come fece al suo esordio”, ci dice, risalendo al momento in cui l’album ha rappresentato un “satori” musicale per tanti giovani che andavano annusando le proposte della nostra scena. Il discorso è plausibile, perché riguarda un’opera che ha il particolare dono di non avere alcuna relazione col trascorrere del tempo, vivendo in una dimensione propria ed esclusiva, che di solito, per comodità, viene definita “classica”.
E poi perché De Gregori, come un numero limitato di colleghi, ha mantenuto viva e attiva la propria relazione con quel materiale musicale, con quelle canzoni, rielaborandole, rimodellandole appunto, trasformandole in un work in progress che declina le mutazioni dell’artista con il flusso e il frutto della propria ispirazione. Perciò, se è probabile che Francesco suonerà nella sequenza originale del disco i nove pezzi della scaletta – alcuni leggendari come quello che dà il titolo all’album, o “Pezzi di vetro”, “Quattro cani”, “Buonanotte Fiorellino”, alcuni dimenticati come “Il Signor Hood” o “Piccola mela” – altresì esclude qualsiasi intenzione di presentarne una versione filologica: “E’ impossibile suonarle e cantarle come allora”, spiega, “i musicisti sono altri e non si possono rifare i suoni di quarant’anni fa, seppure avessi voglia di farlo”. E poi quel disco durava mezz’ora, meno della metà di un concerto, per cui, una volta che lo si sarà risuonato, si passerà oltre, spaziando in altre porzioni della sua produzione. Però vale la pena di soffermarsi sul principio di riproporre “Rimmel” con una visione autoriale rivolta a pubblici diversi e non solo a quello collezionistico, piuttosto sperimentando l’effetto che fa, così, nel suo insieme, a chi è arrivato dopo o molto dopo, alle prese con quest’opera costellata di piccoli misteri. De Gregori si guarda bene dal nascondere la funzionalità economica di un’operazione del genere: “La musica è anche un business e un lavoro. Gli impresari sanno che proporre una serata ‘Rimmel’ ha una valenza commerciale: venderanno più biglietti e questa è la regola del gioco”. Ma infine resta in mente l’indicazione che ci offre su tutta la questione: evitare la pigrizia di trattare questi lavori (“a cui sono infinitamente grato”) come statici pezzi da esposizione per esercizi voyeuristici e sentimentali, ma presentarli col nerbo delle opere forti, capaci di muovere emozioni. Farle risuonare con dentro la vita e il progresso dell’artista, la sapienza della rilettura, la riflessione di un pensiero critico. Perché la storia non finisce mai, sebbene ciclicamente se ne reciti il requiescat, e non serve che il passato uccida il presente. Anche la musica pop ha prodotto storia, la propria storia, lunga una settantina d’anni. Scendere per le sue scale, se gli autori hanno la voglia di accompagnarci, diventa un richiamo della passione, ma anche un’esperienza conoscitiva, un’esplorazione emotiva. E allora tutto ha senso, se suona bene, ieri, oggi e domani.