musica
Ferruccio Busoni e la rivoluzione del pianoforte
Viaggio della musica di Bach dal clavicembalo al pianoforte grazie alle trascrizioni di Busoni. Il genio italiano a 100 anni dalla morte
Una delle sequenze più entusiasmanti della cinematografia che omaggia in qualche modo la musica classica è senza dubbio contenuta nel film del 1993 “Trentadue piccoli film su Glenn Gould” del regista francese François Girard. Il memorabile frammento è proprio uno di quei minuscoli film, intitolato “CD 318” (che è poi la matricola del pianoforte Steinway su cui Gould suonò nelle sessioni della parte finale della sua carriera e che gli appassionati gouldiani non mancano mai di considerare il “Suo” strumento), e dura meno di quattro minuti. L’idea di ripresa di Girard è molto semplice, ma altrettanto suggestiva: la cinepresa si muove sopra la cordiera d’un pianoforte aperto e riprende l’alternanza ritmica dei martelletti che percuotono le corde, come se, in qualche modo, si stesse assistendo a uno spettacolo di varietà per dispositivi meccanici. Si tratta di una curiosissima danza geometrica che, per una sorta di piccolo incantesimo, riproduce la versione gouldiana del “Preludio in do minore” del primo volume del “Clavicembalo ben temperato”. E’ chiaro che, al di là della celebrazione di un musicista geniale, quella sorta di minuscolo miracolo cinematografico è necessariamente avulso da Glenn Gould, perché la meraviglia dei martelletti che percuotono le corde del pianoforte avviene ogni qualvolta un pianista diteggia sulla tastiera: che si tratti di Angela Hewitt, Beatrice Rana, András Schiff oppure di un meno noto ma brillante professionista del Teatro dell’Opera di Roma, chessò, per esempio il maestro Stefano Lenci. Non c’è proprio nulla da dire: la resa filmica è d’una semplicità e di una naturalezza disarmanti, come se la musica arrivasse intatta, cristallinamente incorrotta dal 1722 (sembra incredibile, ma il primo volume del “Clavicembalo ben temperato” – Cbt, come affettuosamente viene chiamato nei conservatori – ha più di trecento anni), tuttavia l’abitudine ha finito per ingannarci perché, come ognuno sa, Bach non compose mai sul pianoforte – nonostante nel 1726 poté sperimentarlo e storcere il naso – quanto piuttosto sull’organo e sul clavicembalo.
Ora è evidente che se il cembalaro Bartolomeo Cristofori non avesse avuto l’idea geniale di intraprendere il cammino che, ben oltre il limite della sua vita, condusse alla costruzione del pianoforte, né François Girard, né nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare una spettacolare danza di martelletti che percuotono una cordiera e producono le medesime note che Bach otteneva da quel “pizzicatore” di corde che è il clavicembalo. Quindi è a Bartolomeo Cristofori che va attribuito il peccato originale d’aver sollevato uno dei più giganteschi problemi dell’umanità, che si manifesta ogni qualvolta qualcuno – con espressione in genere accigliata – chiede provocatoriamente: “Ma Johann Sebastian Bach deve essere suonato con gli strumenti con cui egli compose – l’organo e il clavicembalo – oppure col pianoforte?”. E’ inutile dire che una simile domanda scatena risposte rutilanti che vanno, da un lato, dalla totale ortodossia clavicembalistica e, dall’altro, verso coloro che, come mi è capitato di ascoltare da un palco di uno spettacolo attinente, sostengono senza incertezze: “Beh, se devo scegliere tra pianoforte e clavicembalo, posso solo dire che per me il clavicembalo è buono per far legna e scaldare la casa d’inverno”.
Tuttavia se Bartolomeo Cristofori va caricato del terribile peccato originale, Ferruccio Busoni, del quale quest’anno ricorre il centenario della morte, deve scontare la pena di essere stato il più importante e innovativo trascrittore di Bach per pianoforte. Il musicista empolese, ma triestino d’adozione, nonché trasmigrante ovunque la musica lo conducesse, è talmente importante nella considerazione di molti celebri interpreti bachiani, che si può dire che la sopravvivenza contemporanea del buon Johann Sebastian sia soprattutto dovuta alla curiosa combinazione che a Ferruccio Busoni, quasi per celia, venne chiesto nel 1888 – guarda caso proprio a Lipsia – di trascrivere per pianoforte la “Toccata e fuga in re maggiore” che Bach aveva composto centottanta anni prima. L’incombenza dovette esaltarlo molto perché da quel momento dedicò trent’anni della sua vita alle trascrizioni di Bach e ciò culminò nei 25 volumi delle Edizioni Busoni e nelle altrettanto corpose Edizioni Bach-Busoni, che divennero così tanto famose che, agli inizi del Novecento, persone incuriosite dalla musica, ma non abbastanza ferrate, ritenevano entusiasticamente che, in realtà, il musicista italiano si chiamasse Ferruccio Bach-Busoni.
“E’ stato mio padre a spingermi vigorosamente, nella mia fanciullezza, allo studio di Bach. E’ curioso perché, quando accadde, in Italia il maestro tedesco non era né molto valutato, né molto noto. Non so quale istinto abbia portato mio padre, un semplice virtuoso di clarinetto, con un’educazione musicale insufficiente, a spingermi a intraprendere quella che ritengo l’unica strada giusta. E’ davvero una misteriosa disposizione del destino che un amante della tradizione musicale italiana più popolare mi spingesse verso un musicista tedesco, il cui fascino non m’ha mai abbandonato, nonostante io sia colmo della latinità che mi deriva dalla nascita”.
Tuttavia sorge subito un altro problema, perché l’opera di musicisti del calibro di Ferruccio Busoni ci catapulta inevitabilmente verso un’altra inesorabile domanda, a causa della quale, ancora una volta, scaturiscono interminabili faide famigliari: “Ma un esecutore o un trascrittore, pur essendo eccelsi, sono comparabili alla statura d’un grande compositore?”. Fortunatamente Busoni consente di aggirare le ambasce che l’insidioso quesito porta con sé, perché è stato anche un compositore d’una tale levatura che ha spinto uno dei più importanti pianisti italiani – Giovanni Bellucci – a proporre spessissimo sue composizioni, oppure trascrizioni busoniane di Bach, Liszt e Chopin, nonché a inventare in questo 2024 – visto il centenario della morte – il progetto “Ferruccio Busoni 100”. D’altro canto, per maggior gloria del protagonista, tenuto conto che il 2024 è pure il centenario pucciniano, va ricordato che Busoni compose e portò in scena la propria “Turandot” un bel po’ d’anni prima che Giacomo Puccini cominciasse a ponderare l’eventualità di musicare la famosa “fiaba cinese” di Carlo Gozzi.
Tuttavia, nonostante sia agevolmente possibile sorvolare la questione, Giovanni Bellucci non ha alcuna intenzione d’aggirare il problema e affronta il quesito in modo risoluto, toccando la radice del contendere. “In realtà Busoni non è, come molti sostengono, un semplice trascrittore: d’altro canto oggi s’è perduto il reale senso del trascrivere. Infatti Busoni è probabilmente uno dei primi, forse addirittura il primo, che comprende come la trascrizione da uno strumento all’altro – per esempio dal clavicembalo al pianoforte – necessiti innanzitutto d’un lavoro di immedesimazione, così da avvicinare l’intento compositivo dell’autore sul medium originario. Ciò, in un secondo tempo, dovrà condurre a una sorta di armonizzazione o, se vogliamo usare un termine più moderno, di ‘arrangiamento’ che trascenda la partitura originale per riottenere quella particolare intenzione sul nuovo strumento. D’altro canto, anche se si tende a dimenticarlo, il clavicembalo e il pianoforte sono strumenti molto diversi, con colorazioni timbriche differenti. Ciò fa comprendere bene come il lavoro di trascrizione debba essere molto vicino a ciò che fa un poeta contemporaneo quando traduce un poeta d’un passato più o meno lontano e, sotto questo punto di vista, non c’è dubbio che Busoni sia un autentico poeta musicale del primo Novecento”.
Poi, inanellando frammento su frammento, Bellucci prosegue senza tentennamenti: “Sembra persino che, con i suoi lunghi studi, con i suggerimenti e le analisi che accompagnano le trascrizioni che alla fine hanno occupato più della metà della sua vita, Busoni intenda dire ai pianisti moderni: ‘Guardate che il fatto che voi oggi possiate senza particolari difficoltà accostarvi con il pianoforte alla musica di Bach è legato alle mie lunghe dissertazioni sulle differenze d’interpretazione tra l’organo, il clavicembalo e il pianoforte’. Che in altri termini significa: ‘Se non l’avessi fatto io tra il 1888 e il 1924, beh, il lavoro sporco della trascrizione sarebbe toccato a voi!’. Questa è la ragione per cui Busoni è una pietra miliare nello studio del pianoforte ed è anche il motivo per cui coloro che lo amavano intensamente come pianista e concertista talvolta si confondevano e lo chiamavano Ferruccio Bach-Busoni”.
Così alla fine si può ben dire che gli appassionati che chiudono gli occhi e si perdono nei contrappunti delle due esecuzioni leggendarie di Glenn Gould delle “Variazioni Goldberg”, in realtà oltre che guardare con trepidazione le numerose fotografie del pianista canadese che accompagnano le incisioni della Sony Classical (in realtà, in origine, Columbia Records), dovrebbero possedere almeno una piccola immagine del pianista italiano, magari la figurina del ritratto che gli fece Umberto Boccioni nel 1916, perché è Ferruccio Busoni l’artefice della trasmutazione della musica di Johann Sebastian Bach da uno strumento a tastiera più antico a uno contemporaneo, “accordando” in questo modo le conclusioni dei musicologi più importanti: “Il grande pianista empolese seppe offrire agli ascoltatori nuovi panorami, nuovi scenari appartenenti alla musica del grande Bach, facendo comprendere che la musica non è immortale soltanto perché bella e profonda in sé, ma per il fatto che da essa proviene sempre una nuova scintilla che mantiene viva la fiamma dell’interpretazione e della concezione originaria della composizione”.
Perciò che si tratti di Angela Hewitt, di Beatrice Rana, di Giovanni Bellucci, di András Schiff o di qualche studente dell’ultimo anno di conservatorio alle prese, per l’esame di stato, con la partitura per pianoforte del “Concerto italiano”, beh, sempre a quella figurina del ritratto di Boccioni è necessario volgere uno sguardo riconoscente, sul cui retro, in piccolo, è scritto: “Il maestro Busoni a Pallanza, in posa col cappello in mano”.