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Il docufilm sul leggendario debutto dei Beatles in America, una rivoluzione della modernità 

Stefano Pistolini

“Beatles ’64” ricostruisce le prime due settimane americane dei Fab Four, coi concerti di New York, Washington e Miami e i due passaggi tv all’Ed Sullivan Show. La storia di giornate surreali, ripercorse mille volte ma ancora capaci di colpire al cuore

Nella benemerita e instancabile opera produttiva di Martin Scorsese dedicata specificamente alla pop music s’aggiunge un’altra perla lucente. “Beatles ’64” (visibile su Disney+) è il titolo del documentario d’archivio commentato da interviste appositamente realizzate al presente, nel quale si ricostruisce il leggendario debutto americano dei Fab Four, coi concerti di New York City, Washington e Miami e i due passaggi televisivi all’Ed Sullivan Show, al tempo il programma più seguito della nazione. Il grosso del materiale dell’operazione è il girato realizzato in quell’inverno del 1964 dai due fratelli documentaristi da Albert e David Maysles, a loro volta figure di culto del cinema indipendente d’oltreoceano (è loro il meraviglioso, spericolato affresco decadente “Grey Gardens”, del 1975). A sovrintendere a questo progetto, la regia di David Tedeschi, già collaboratore di Scorsese nelle vesti di montatore di “Shine a Light” il doc sugli Stones e di “Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story”, e qui a capo del team di restauro in 4k, effettuato negli ormai venerabili Park Road Post Studios di Wellington, Nuova Zelanda, gli stessi dove Peter Jackson ha concepito la poderosa epopea beatlesiana “Get Back”. 

“Beatles ’64”, pur ripercorrendo una vicenda mille volte narrata, irradia una forza particolare che ancora una volta ipnotizza lo spettatore e mette alla prova la sua resistenza alla commozione: a colpire al cuore non sono tanto le immagini delle esibizioni in concerto del quartetto, che pure ripropongono l’energia contagiosa e la raggiunta maestria dei Beatles, quanto l’insistito sguardo voyeuristico sul come e dove John, Paul, George e Ringo trascorrono quelle loro prime due settimane americane, assediati dai fans, in particolare dalle giovanissime ammiratrici sospese tra deliquio e isteria, pazientemente prigionieri in albergo (anche quel mitico Hotel Plaza non esiste più…) e importunati a ogni piè sospinto da plotoni di famelici reporter, pronti a far loro le domande più stupide del mondo. I fratelli Maysles riescono fortunosamente a farsi ammettere al cospetto della band e di lì in poi condividono con loro quelle giornate surreali, trascorse a spiare dalle finestre la gazzarra giù in strada, a gingillarsi e a riproporre all’infinito la routine di scherzi, battute e pantomime con cui i Beatles reagivano a qualsiasi sguardo indiscreto.

Loro sono magnifici, leggiadri e birboni, al tempo stesso increduli dell’uragano mediatico che li travolge, eppure consapevoli d’avere il privilegio di parlare a milioni di coetanei che li amano perché si rispecchiano in loro. I Beatles adorano fare gli scemi, ma intanto portano in giro per l’esotica America una solennità che è il prodotto d’una scoperta: ora tocca a loro, ai ragazzi, sfondare non una ma cento barriere, aprire la strada, indicare la direzione. I giovani vogliono sentirsi liberi, non vedono l’ora di divertirsi, odiano parlare di guerra, non capiscono, nel caso degli americani, la segregazione nella quale sono cresciuti, percepiscono fortissima la frenesia dei corpi e l’effetto che su di loro ha quel vapore che sembra una droga, chiamato rock’n’roll. 

Lo spettacolo magnetico di “Beatles ’64” sono le facce delle ragazzine, le frasi concitate con le quali provano e definire la passione che le pervade, il candore di quei calzettoni e delle scarpe basse, dentro le quali i piedi hanno voglia di dimenarsi, finché la danza diviene irrefrenabile. Siamo nel febbraio ’64, l’America è psicologicamente dentro l’incubo dell’assassinio di JFK, il sogno spezzato, la violenza e la sopraffazione che si affermano come linguaggi decisivi, la determinazione che il perfetto disegno sociale era solo un’illusione. E’ un lutto lungo e oscuro, dentro il quale deflagra la mina-Beatles, i giovanotti inglesi dall’aspetto effeminato e coi capelli lunghi che sembrano parrucche, ma che sanno stregare i teenagers come nessuno può sperare di fare in America. Sta qui il senso profondo se si vuole tentare una ricostruzione della cultura popolare d’Occidente, anche attraverso ciò che “Beatles ’64” descrive in modo lampante: il significato determinante che in quel momento la musica assume per le nuove generazioni.

La musica diviene il luogo comune e condiviso, l’ambiente delle illuminazioni e delle passioni, la connessione e la rappresentazione tra milioni di ragazze e ragazzi che capiscono di avere davvero la vita davanti e di poterne fare ciò che vogliono. E’ una delle poche vere rivoluzioni della modernità, che giungerà a compimento in un baleno rivelando al mondo – un pianeta ancora sonnolento e a velocità moderata – che è tempo di cambiare. Finemente androgini, gli angeli della rivolta sono i quattro ragazzotti della classe operaia provenienti da Liverpool, una delle città più disgraziate del Regno Unito, che fanno quel che sanno perché ci si sono trovati, hanno capito che è il loro destino e che conviene approfittarne. Cantano, ridono e corrono. E tutto il mondo li insegue.