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La notte d'oro

Quando l'olimpo della musica americana si riunì per registrare “We Are the World”

Marco Bardazzi

Il meglio del meglio di tutti quelli che erano su piazza in quel momento, spaziando dal pop al rock, fino al country: tutti insieme, riuniti in gran segreto agli A&M Studios per stupire il mondo. La sfida più grande? Lasciare l’ego all’entrata

Che notte, quella notte. In un angolo della sala di registrazione c’è Michael Jackson, con gli inseparabili occhiali scuri e un paio di grandi cuffie in testa, concentrato ad ascoltare e memorizzare le note. Dall’altra parte della sala, un Bob Dylan perplesso si consulta con Stevie Wonder su come intonare la propria parte. A due passi da loro, ecco Bruce Springsteen che scherza con Tina Turner e Diana Ross, mentre Cyndi Lauper agita i capelli colorati e le collanine appese al collo, parlando a raffica di fronte a un silenzioso Paul Simon. Quincy Jones intanto ripassa lo spartito, Ray Charles chiede dove sono i bagni e Lionel Richie prova a fare il leader e richiamare l’attenzione di tutti. Manca Madonna, nessuno sa perché. Manca anche Prince, nel suo caso si sa bene il perché: ha deciso di non mescolarsi con la truppa. Ma gli altri big ci sono tutti. Al punto che Simon (da solo, perché con Garfunkel aveva di nuovo litigato dopo la grande reunion a Central Park) a un certo punto sorride e se ne esce con una battuta che nessuno dimenticherà per anni: “Se adesso qui cade una bomba, John Denver torna primo in classifica”. Non molto carino nei confronti dell’autore di “Take Me Home, Country Road”, ma rende bene l’idea dell’unicità di quello che sta accadendo.  

Che notte, quella notte di gennaio del 1985, quarant’anni fa, quando i mondi del pop, del rock, del country e del soul a stelle e strisce si fusero in un’unica canzone e gridarono a una sola voce: “We Are the World”. Ronald Reagan aveva appena giurato sulla Bibbia e cominciato il secondo mandato presidenziale, dopo una campagna elettorale trionfale dominata dallo slogan “Morning in America”. A Mosca, il segretario generale Konstantin Chernenko stava morendo e l’Unione sovietica si preparava a una svolta a sorpresa: l’arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov. E in mezzo a una geopolitica che stava cambiando gli equilibri globali, un gruppo di cantanti celebri si chiudeva in segreto per un’intera notte in una sala di registrazione, uscendone poi con un messaggio: “Il mondo siamo noi”, non i presidenti e i potenti, ma ciascuno di noi, tutti possiamo fare qualcosa. Un brano inciso per solidarietà con l’Africa e soprattutto per raccogliere fondi per l’Etiopia, che stava vivendo una devastante carestia da 700 mila morti. Un disco che avrebbe venduto 20 milioni di copie, vinto quattro premi Grammy e che sarebbe passato alla storia soprattutto per il video che lo accompagnava, l’immagine inedita di una cinquantina di superstar riunite a cantare in un coro.

 

Gennaio 1985. Reagan aveva appena giurato, a Mosca si preparava Gorbaciov, l’Etiopia subiva una carestia da 700 mila morti

           


Musicalmente, “We Are the World” non era granché e qualcuno dei big impegnati nell’operazione non nascose di vergognarsi un po’ a cantare il ritornello. Ma quella sessione di registrazione tra le dieci di sera del 28 gennaio 1985 e le 8 del mattino successivo è passata alla storia, perché nei quarant’anni successivi nessuno è più riuscito a riunire un gruppo di stelle analogo. Oggi, nel nuovo ecosistema della musica dell’era di Spotify, sembra un’impresa impossibile. Quattro decenni dopo, vale la pena riscoprire come sia accaduto il piccolo miracolo di “We Are the World”, anche grazie al materiale inedito e alle interviste che ha realizzato Netflix per produrre un documentario dedicato a quell’evento, “The Greatest Night in Pop”. 

Il 1984 era stato un anno straordinario per la musica pop americana. Mtv dominava la scena televisiva e i cantanti stavano scoprendo la potenza del video. Michael Jackson aveva dimostrato a tutti quello che si poteva fare, con il suo “Thriller” diretto da John Landis, e c’era la corsa a creare video che raddoppiassero la potenza espressiva e la circolazione delle canzoni. Bruce Springsteen aveva fatto una sapiente scelta di immagini per costruire il racconto intorno all’album con cui dominava le classifiche di quell’anno: “Born in the U.S.A.” Prince aveva addirittura girato un film basato sul suo brano “Purple Rain” e il video di Madonna che cantava “Like a Virgin” la consolidò come la quarta divinità musicale di quel periodo, insieme a Jackson, Springsteen e Prince. Era stato anche l’anno del Mac di Steve Jobs che sfidava i computer della Ibm e del decollo dei primi cd che sostituivano il vinile. A New York dominavano gli spietati raider della Borsa che Oliver Stone si apprestava a raccontare nel suo “Wall Street” con Michael Douglas, e gli imprenditori edili senza scrupoli che promettevano sempre nuovi grattacieli: uno di questi, un certo Donald Trump, volava in elicottero tra Manhattan e Atlantic City per costruire il (finto) impero di palazzi e casinò che stava rendendo celebre il suo brand personale. 

Il 1984 era stato anche un anno di riscatto e di grande visibilità per i neri d’America. Non solo Michael Jackson e Prince, ma anche Michael Jordan che cominciava la propria straordinaria carriera nella Nba, gli atleti neri che dominavano le Olimpiadi di Los Angeles e il reverendo Jesse Jackson che era diventato il primo afroamericano ad avere qualche seria chance come candidato alla Casa Bianca. Un altro nero celebre e impegnato nelle battaglie per i diritti civili, il cantante Harry Belafonte, alla fine di quell’anno si interrogava su come i neri di successo americani potessero aiutare i “fratelli” in Africa, soprattutto quelli che stavano particolarmente soffrendo come gli etiopi. Belafonte era rimasto colpito dal successo che aveva avuto un’iniziativa promossa in quei mesi dal cantante Bob Geldof, che aveva messo in piedi un supergruppo di artisti britannici e irlandesi, Band Aid, e lanciato una canzone per raccogliere fondi per l’Africa, “Do They Know It’s Christmas?”, che stava andando fortissimo nel Regno Unito e non solo. Se Geldof era riuscito a mettere insieme Bono, Phil Collins, Simon Le Bon, George Michael, Sting e molti altri, perché non provare qualcosa ancora più in grande stile con le star americane? In particolare, si chiedeva Belafonte, “perché ci sono questi bianchi che salvano i neri, mentre i neri non stanno facendo niente per i neri?”

 

Harry Belafonte vede Band Aid in Inghilterra. “Perché ci sono questi bianchi che salvano i neri, mentre i neri non stanno facendo niente per i neri?”

                   


Il progetto che sarebbe diventato “We Are the World” partì da questi interrogativi. Belafonte alla metà degli anni Ottanta era una potenza a Hollywood e nell’industria discografica americana e mobilitò subito un altro pezzo da novanta, Ken Kragen, un manager che gestiva una delle maggiori scuderie di cantanti in America. Insieme, tirarono in breve tempo dentro il progetto Lionel Richie, uno dei clienti di Kragen e in quel momento all’apice del proprio successo nel mondo dello spettacolo. Un terzetto come Belafonte, Kragen e Richie aveva un Rolodex – come si chiamava all’epoca la rubrica telefonica dei potenti, fatta a forma di schedario rotante – nel quale c’erano i numeri privati di tutti i cantanti che contano. E ben pochi potevano dire di no a quei tre

Per consolidare il progetto di mobilitare un gran numero di star nere, i tre promotori a cavallo tra la fine del 1984 e l’inizio del 1985 coinvolsero altri tre giganti: Michael Jackson, che aveva appena concluso una tournée con i fratelli, il produttore e compositore delle star Quincy Jones e il geniale Stevie Wonder. Il compito di scrivere testo e musica fu affidato a Jackson e Richie, che si chiusero per una settimana nei primi giorni di gennaio nella villa di Michael a inventare “We Are the World”. Stevie Wonder avrebbe dovuto aiutarli, ma era un personaggio bizzarro e inaffidabile e si fece vivo solo quando avevano concluso il lavoro e toccava a Quincy Jones preparare gli arrangiamenti

 

                           

 

Nel frattempo, Belafonte e Kragen stavano ingaggiando mezzo mondo. Non più solo artisti neri, ma il meglio del meglio di tutti quelli che erano su piazza in quel momento, spaziando dal pop al rock e fino alla musica country, la più “bianca” che ci sia. Fu una gigantesca operazione di pubbliche relazioni, ciascuno dei contattati voleva sapere chi aveva già aderito e chi no e ogni nuovo nome ne portava altri. Il colpaccio di Kragen fu quello di convincere Springsteen, che era in tournée e non aveva una sera libera, ma promise che avrebbe trovato il modo di esserci. Dopo l’adesione del Boss, fu più facile convincere Bob Dylan, Billy Joel, Paul Simon. Ma si aprirono le porte anche del mondo del country, con le adesioni di Kenny Rogers, Willie Nelson e Waylon Jennings. Sul fronte femminile, accettarono di esserci Diana Ross, Dionne Warwick, Tina Turner e Cyndi Lauper. Resta ancora un mistero – non risolto neppure dal nuovo documentario – il mancato ingaggio di Madonna, che pare essere legato alla presenza della Lauper: le due erano le grandi rivali del momento e non sembra ci fosse la possibilità di farle stare insieme nella stessa stanza. 

 

Resta un mistero – non risolto neppure dal nuovo documentario – il mancato ingaggio di Madonna. Pare che il problema fosse Cindy Lauper

                    


La sfida più grande fu la logistica. Fu scelta la notte del 28 gennaio perché gran parte degli artisti quella sera sarebbero stati a Los Angeles per la cerimonia di consegna degli American Music Awards. Lionel Richie era il conduttore della serata e la complessità del progetto stava nel far uscire di nascosto dal teatro alla fine dello show lui e decine di star, per trasferirli in segreto agli A&M Studios, dove Quincy Jones e un team di una ventina di persone li aspettava per registrare. Nessuno doveva saperne niente e poco trapelò fino al marzo successivo, quando uscirono il disco e il video che stupirono il mondo

All’entrata degli studios, Jones – che sapeva bene quanto fosse difficile lavorare con tutte quelle primedonne – aveva fatto mettere un cartello: “Lasciate il vostro ego qui all’ingresso”. Dentro la sala di registrazione dovevano cercare di essere tutti alla pari e rinunciare agli atteggiamenti da divi con cui, presi singolarmente, erano soliti comportarsi. Per rendere ancora più chiaro il messaggio, una volta riuniti gli artisti, Jones diede la parola a Geldof che era volato appositamente da Londra. Il promotore di Band Aid raccontò cosa aveva visto in Africa, l’orrore della carestia e la differenza che potevano fare con quella canzone nella vita di milioni di persone. A quel punto il clima era quello adatto all’occasione, ma furono necessarie molte ore e molte prove per riuscire a ottenere il mix giusto di voci soliste e di cori da un gruppo di superstar abituate a non condividere i riflettori con gli altri. Lionel Richie si prese il compito di gestire l’aspetto diplomatico della serata, cercando di placare proteste, nervosismi e piccoli screzi che avvenivano in mezzo al gruppo. Stevie Wonder cercò di contribuire a stemperare le tensioni con una battuta: “Se vi comportate bene e facciamo in fretta, prometto che io e Ray Charles vi riportiamo tutti a casa in macchina”. Risata generale e applausi ai due cantanti ciechi. Subito dopo però tirò fuori un’idea bizzarra, quella di inserire un testo in swahili dentro il brano, creando un dibattito che degenerò in rissa verbale e spinse Waylon Jennings a mollare tutto e andarsene. 

Quando Richie e Jones ripresero il controllo della situazione, si provò a chiudere in fretta. Ma fu la volta di una serie di nuovi problemi, stavolta di performance. Cyndi Lauper urlava troppo e aveva le collanine che facevano rumore e disturbavano la registrazione. Bruce Springsteen, appena arrivato dopo un concerto dall’altra parte dell’America, era stanchissimo e aveva una voce più roca del solito. Huey Lewis era impaurito, gli era stato dato il ruolo pensato per Prince – atteso fino all’ultimo, ma mai arrivato – e faticava a trovare il tono giusto, anche se alla fine fu tra i migliori. Al Jarreau, con una bottiglia in mano, era evidentemente ubriaco e costrinse tutti a provare più volte, perché continuava a sbagliare la sua parte.  

Ma il momento più intenso, delicato e spiazzante fu un altro, rimasto sconosciuto per quattro decenni fino a quando Netflix non ha riproposto le registrazioni video del dietro le quinte di quella sera. Protagonista: Bob Dylan. Il mito della musica americana, il più grande cantautore di tutti i tempi, il premio Nobel per la letteratura, quella sera non riusciva a cantare. Fa impressione, nel film, vedere l’interprete di brani come “Blowin’ in the Wind” e “The Times They Are a-Changin’” non riuscire a capire come intonare un ritornello sulle parole “There’s a choice we’re making / We’re saving our own lives”. In realtà non dovrebbe sorprendere più di tanto, perché Dylan era stato generoso a partecipare, ma era tra tutti quello più lontano dal genere musicale che avevano scelto Michael Jackson, Lionel Richie e Quincy Jones. 

Alle cinque e mezzo del mattino, di fronte alle difficoltà di Dylan nel registrare la propria parte, Jones dimostrò tutta la sua bravura e abilità nel gestire gli artisti. Fece uscire quasi tutti dalla stanza, creò un momento di silenzio, poi chiamò Stevie Wonder al pianoforte, che con la sua straordinaria capacità di imitare chiunque fece sentire il brano cantato con la voce di Bob Dylan, imitando perfettamente l’originale. Sorridente e rincuorato per aver finalmente capito, Dylan ringraziò Wonder, andò al microfono e fece Dylan. Come sempre gigantesco anche in poche frasi di una canzone così diversa dalle sue.

Quella sera Bob Dylan non riusciva a cantare. Problema risolto da Stevie Wonder che gli fece sentire la parte imitando alla perfezione la sua voce