Screenshot da YouTube/La Caciara, Ketama

Stornello trap

Versi solenni e cupi, nello stile di Califano: Ketama rovescia il tavolo dell'impresentabilità

Stefano Pistolini

L'indolenza che non ha più la speranza mentre intorno è tutta una schitarrata da osteria e un assolo di sax da festa gitana. "La Caciara" aiuta a distoglierci dalle preoccupazioni e a sollevare il velo di depressione provocato dalla pletora di sindaci promossi critici musicali, da Gualtieri a Mastella

Dopo i litigi di Capodanno sullo stato di legittimità di Tony Effe, la redenzione di Achille Lauro promosso giudice di un talent generalista, i milanesi della Dogo che imperversano innocui sui media mainstream, nemmeno fossero reduci dai Pooh, insomma la questione delle direzioni da prendere e della relativa presentabilità di una nuova canzone d’autore italiana diventa sempre più complicata. Per non dire che ormai dietro l’angolo incombe Sanremo, dove forse certi nodi di questo trascurabile argomento verranno al pettine, ma dov’è anche più che lecito attendersi un succedersi di scandaletti e pentimenti, fraintendimenti e chiarimenti, perciò tutto un entra&esci da quell’idea di cosa sia lecito (e cosa no) mettere in musica nel nostro paese nel 2025, un lancia il sasso e nascondi la mano orchestrato dagli uffici stampa – il che, sarete con noi, è un dibattito orrendo già per definizione. 

Ma a distoglierci dalle preoccupazioni e a sollevare il velo di depressione provocato dalla pletora di sindaci promossi critici musicali, Gualtieri e Mastella in testa, ci pensa per fortuna Ketama, figura intransigente della scena trap romana se ce n’è una, talmente lampante nella sua appartenenza alla parte sbagliata della staccionata (quella dove ci si comporta male e si è impresentabili, nella metrica di questo post-post-rock) da poter spaziare nelle sue proposte senza timore d’essere scomunicato, perché l’abiura per quanto lo riguarda è perenne e permanente (e quando si è parlato di lui nei salotti buoni – ricordiamo la capricciosa intervista televisiva di Daria Bignardi a “L’Assedio”, qualche anno fa – lo si è fatto con la pruderie di una ricognizione nelle frange irrecuperabili della musica dei nostri figli perduti). Ma ecco che Ketama, che comunque un suo bel pubblico ce l’ha, anche se composto essenzialmente di gente incavolata, poco disponibile al dialogo come lui (lo testimoniano la valanga di dischi d’oro e platino che ha sulle pareti) spiazza il discorso, svuotando il tavolo dei contenuti abituali e impresentabili della trap, e recuperando la vecchia, iniziale fissazione dei rappettari romani del decennio precedente, quando erano in voga il Truceklan prima, la DPG poi e infine la posse dei 126 scalini, e tutti, indifferentemente, si portavano dentro al cuore e alla fantasia le canzoni che ascoltate nel tinello da piccoli, e perciò soprattutto De Gregori, Gabriella Ferri e in particolare Franco Califano, la musica dei genitori, o perfino dei nonni, ma pezzi di cui mica ti puoi liberare più, se per tutta l’adolescenza dentro al Raccordo Anulare hai sentito gorgheggiare dalla cucina che “stamo mejo noi che nun magnamo mai…”.

E allora Ketama se n’esce con questo pezzo “La Caciara” – e ci auguriamo che Carlo Conti non l’abbia potuto esaminare per il Festival, perché ci stava come il cacio sui maccheroni –  che è dunque una ballata romana nella pura e inossidabile tradizione degli stornelli e pronuncia delle verità tanto risapute quanto eterne – perché lo stornello è ripetizione – ossia che la vita è amara e non basta “’na chitara” e soprattutto che “A chi tocca nse ’ngrugna” perché tanto “Il più pulito ha la rogna”. E Ketama ha la voce bassa e greve per declamare questi versetti solenni e cupi, così come li faceva Califano, con l’indolenza che non ha più la speranza, e attorno è tutta una schitarrata da osteria e un assolo di sax da festa gitana e il pezzo finisce in gloria prima dello scoccare dei tre minuti, ma lascia attoniti a pensare che è vero che è la saggezza antica a riaffiorare sempre e allora tanto vale Claudio Villa. 

Che poi “La Caciara”, in fondo, è anche un modo di sigillare, con l’apatico ritardo di chi non si prende troppa pena, l’affare Tony Effe, ovvero le questioni dell’indecenza, della tollerabilità, del fastidio e dell’incomprensione che aleggiano attorno alla musica italiana che oggi piace ai più piccoli. Perché Ketama, cantando (bene) nei dintorni di Lando Fiorini, ci dice che lui la lezione da un pezzo l’ha mandata a memoria e che, se vogliono, i trapper “fiori del male” possono rientrare nella fila quando gli pare, mimetizzarsi, rendersi accettabili, cantando come i padri ai tempi della bicchierata. E che un pezzo così potrebbero perfino intonarlo davanti al Papa, a una festa della gioventù, e meritarsi una carezza, che tanto loro i pensieri cattivi hanno imparato a tenerseli dentro, a rinfoderarli nel repertorio dell’indicibile, perché adesso è così. E se volete un Ketama che suona le serenate e le canzoni dell’assassino, siete serviti, ma non è che la cosa debba farci stare più tranquilli di prima.
 

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