Giovanni Pierluigi da Palestrina (Foto Wikipedia)

Rinascimento

La misteriosa bellezza di una musica che sopravvive al peso dei secoli

Stefano Picciano

Nel vasto mosaico musicale del Rinascimento, il nome di Giovanni Pierluigi si lega con le vicissitudini della Riforma cattolica, creando uno stile capace di coniugare la molteplicità delle voci alla chiarezza, la polifonia alla comprensibilità del testo

Chi si accinga a esplorare la ricchezza musicale del Rinascimento rimarrebbe sorpreso dal fittissimo elenco di compositori a cui il nostro paese ha dato i natali, e pur ponendo in primo piano i nomi più illustri perderebbe il suo sguardo tra un’enorme quantità di autori minori – delle cui pagine, spesso incantevoli, gli archivi di tante nostre città traboccano – che concorrono a delineare un mosaico di vastità inaspettata.

Tra tutti emerge quel Giovanni Pierluigi, di cui quest’anno ricorre il quinto centenario della nascita, che dell’arte musicale è considerato il princeps avendo legato il suo nome, con esiti senza eguali, alle vicissitudini che la musica attraversò nell’ambito della Riforma cattolica. L’occasione del Giubileo può costituire un invito (tanto più in un tempo nel quale i fraintendimenti sul tema della participatio actuosa hanno determinato l’irruzione della musica leggera nella liturgia) a rivolgere l’attenzione al nostro sommo compositore di musica sacra, autore di quelle “immortali creazioni al di fuori del tempo e dell’umanità” (così un biografo nel 1925) che secondo la tradizione – ma in ciò è necessario attenuare talune tendenze all’enfasi – salvarono “la polifonia in un frangente nel quale si meditava di bandirla”. 

Nato a Palestrina nel 1525, Giovanni Pierluigi trascorse la vita a Roma, in continui rapporti con pontefici e nobili casate, ripetuti spostamenti tra le basiliche a guidarne le prestigiose realtà musicali (San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Pietro), divenendo autore di opere che rimangono come un riferimento assoluto: è il vertice di claritas, proportio, perfectio che il Cinquecento seppe concepire. Con Palestrina si compie quell’età della polifonia che nel periodo precedente, sulla scia di un secolare cammino, aveva raggiunto per spinte di matrice fiamminga culmini di complessità inauditi, ove le numerose voci si intrecciavano in modo così articolato da dar vita a effetti sorprendenti (“Musicam renovare cupimus et inaudita imponere” aveva dichiarato già a fine Trecento Johannes Ciconia) eppure rei di destare grandi perplessità nei pontefici: i giovani compositori “corrono e non si riposano mai, inebriano le orecchie e non curano gli animi”, osservava Giovanni XXII additando espressioni musicali troppo spettacolari e artificiose (accadde così, per fare solo un esempio, che nel 1538 il vescovo di Modena vietasse la polifonia nel duomo della città) e dunque non più rispondenti all’essenzialità che la liturgia per sua natura richiede.

L’itinerario di Palestrina si innesta sulla tensione riformatrice che nell’ambito del Concilio di Trento si interroga su quali debbano essere i caratteri di una musica conforme alla liturgia (e non mancava chi – urtato da uno stile che sembrava aver oltrepassato ogni limite, avrebbe voluto escludere ogni canto che non fosse quello a voce sola della tradizione). In quest’epoca le vertiginose architetture musicali quattrocentesche, costruzioni sonore d’estrema complessità in cui il testo si perde nel meraviglioso groviglio delle voci simultanee, lasciano il campo a un’opera di semplificazione che caratterizza in quel frangente storico tutte le arti: una nuova simmetria, la ricerca di equilibrio e proporzione, una compostezza formale che – se non vanno attribuite unicamente a lui, essendo già insite nelle tendenze dell’epoca – trovano in Palestrina il più illustre riferimento. La Missa Papae Marcelli, assunta dalla storiografia come la partitura che sconvolse i padri conciliari al punto da mutarne i propositi (“fu cagione – si scrisse – che il Concilio non bandisse la polifonia dalle chiese”), si affianca a innumerevoli altre opere caratterizzate da una spoliazione della materia sonora non dissimile dal gesto con cui Michelangelo, per via di levare, in quegli stessi anni liberava dal marmo i suoi capolavori.

Nel 1571 Palestrina prende servizio in San Pietro e compra una piccola casa proprio adiacente alla basilica, mettendo fine alle peregrinazioni tra le chiese romane. Se non fu propriamente il “salvatore” della musica polifonica, Palestrina ebbe il ruolo di dimostrare che era possibile creare uno stile che coniugasse la molteplicità delle voci alla chiarezza, l’intreccio contrappuntistico all’equilibrio formale, la polifonia alla comprensibilità del testo. Uno stile di purezza inaudita, che condusse la musica a quei vertici di misteriosa bellezza la cui importanza, anche per l’uomo d’oggi, è stata spesso sottolineata da Benedetto XVI: “L’autentica bellezza schiude il cuore dell’uomo alla nostalgia. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, allora riscopriamo (…) il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità”.

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