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Foto ANSA
Teatro
Alla Scala si fanno progressi: la “Valchiria” non è brutta, ma solo noiosa
L’idea di un Wagner non ideologico né attualizzato che recuperi la componente mitica o il fantasy ci può anche stare. Ma alla fine lo spettacolo di David McVicar è così discreto da approdare all’insignificanza, nonostante alcune voci eccellenti
Se il “Rheingold” era decisamente brutto, questa “Walküre” è solo noiosa, quindi il nuovo “Ring” della Scala fa progressi. L’idea di un Wagner non ideologico né attualizzato che recuperi la componente mitica o il fantasy ci può anche stare. Ma se si tolgono i cappottoni, i nazisti e il filosofumo bisogna sostituirli con qualcos’altro. Nello spettacolo di David McVicar, buatissimo alla fine, è così discreto da approdare all’insignificanza: niente idee, niente effetti e men che meno speciali, niente recitazione significativa, molti sbadigli. L’irrompere della primavera nel sublime finale del primo atto è un siparietto che si alza, sai che brividi.
Quando McVicar mise in scena l’“Anello” all’Opéra du Rhin, a Strasburgo, l’impostazione era la stessa, ma tutti si muovevano molto e bene: qui, succede nulla. Anche Simone Young, viceversa assai applaudita, sul podio non va oltre la correttezza: genericamente lirica, genericamente efficace, genericamente generica. Con due pregi: un buon sostegno al palcoscenico e un terzo atto più vispo, dove in effetti anche lo spettacolo sembra un po’ svegliarsi, e noi con lui.
Questa “Valchiria” risulta però potabile nelle voci. Non Günther Groissböck, Hunding spompato, e alla fine nemmeno tanto Camilla Nylund, una Brünnhilde valida ma che, diciamo così, gioca un po’ di rimessa. Ma il pattuglione delle valchirie, provviste di mimi-cavalli zompettanti sui trampoli, è ottimo; idem la Fricka dell’amata Okka von der Damerau. Klaus Florian Vogt, Siegmund, ha sempre un invidiabile timbro adolescenziale e Michael Volle una gran classe, e questo sapevamcelo, ma conserva anche una bella resistenza, e insomma non arriva alla fine stremato come nove Wotan su dieci.
E poi Elza van den Heever è una Sieglinde eccellente: voce particolare, scabra, ma usata con arte, gusto e personalità. A lei spetta nel terzo atto quella che per me è la più bella frase di tutta la “Tetralogia”: “O hehrstes Wunder! Herrlichste Maid!”, o sublime prodigio, o gloriosa fanciulla: opportunamente piazzatasi nel punto-Callas, l’ha cantata dandomi un’emozione. In cinque ore, però, l’unica.
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