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Foto Getty
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Metamorfosi di Bach. Varcare le frontiere, pur facendo il proprio mestiere
Le “Variazioni Goldberg” che variazioni non sono. Matematica, varietà stilistica, e l’interpretazione di Angela Hewitt
Questo testo è stato scritto in vista dell’esecuzione delle “Variazioni Goldberg” di una interprete d’eccezione come Angela Hewitt, per l’Istituzione universitaria dei concerti, nell’aula magna dell’Università di Roma La Sapienza l’8 febbraio. La presentazione si è svolta in dialogo con un musicista e musicologo di vaglia quale Oscar Pizzo, alla cui grande cultura musicale l’autore è debitore
Se dobbiamo credere al più grande poeta di lingua tedesca, Johann Wolfgang Goethe, per cui l’opera di Bach è un dialogo di Dio con sé stesso, prima della creazione, dobbiamo anche pensare che le cosiddette Variazioni Goldberg siano il momento in cui questo dialogo diventa più intenso, il suo acme. Ci accingiamo ad ascoltarle dalle note di una interprete d’eccezione, Angela Hewitt, che ha registrato per la casa Hyperion, in 16 dischi, tutta l’opera per tastiera di Bach e che ha confessato ad Oscar Pizzo e a me, qualche giorno fa, di festeggiare quest’anno il cinquantesimo anniversario delle sue esecuzioni in pubblico delle cosiddette Variazioni Goldberg.
Non bisogna però credere al titolo di quest’opera: non sono né Goldberg, né variazioni. Non sono Goldberg perché l’allievo di Bach con quel nome aveva, quando quest’opera fu scritta, nel 1739-40, non più di 13 o 14 anni (era nato nel 1727 e diventerà a sua volta un compositore), per cui appare inverosimile che un affermato musicista quarantaduenne scegliesse come dedicatario di una sua sublime opera un fanciullo, e non è vera la leggenda (un aneddoto l’ha definita un grande esperto bachiano come Alberto Basso) riferita dal primo biografo di Bach, Folker, nel 1802, a distanza di più di cinquant’anni dalla morte di Bach, che furono scritte per conciliare il sonno del conte Keyserlingk e furono ripagate con una coppa d’oro piena di 100 monete d’oro, del valore di quasi 40 mila dollari attuali (un’assonanza forse con Goldberg, che vuol dire Montedoro?).
Sappiamo per certo che Bach vide per primo lo spartito a stampa oggi conservato nella Bibliothèque nationale de France, in rue Richelieu, Parigi, e nel titolo dello spartito non ricorrono né il nome Goldberg, né la parola variazioni, ma solo, in tedesco, “esercizio per tastiera, composto da un’aria con diversi tipi di trasformazioni per il clavicembalo a due manuali approntata per dilettare l’animo degli appassionati”. Nel titolo c’è scritto Veränderungen, che vuol dire piuttosto metamorfosi. Bach ha usato, quando ha voluto, la parola tedesca “Variation” o, in latino, “Aria variata”.
Le Goldberg chiudono un ciclo unitario di esercizi per tastiera, iniziato nel 1925 come esercizio familiare dedicato alla giovane seconda moglie Anna Magdalena, una brava soprano, e al figlio ventenne Wilhelm Friedemann, un ciclo di cui costituiscono la quarta parte. L’ipotesi più probabile è che questi esercizi siano stati scritti come un dono alla moglie, che ne trascrisse l’aria per soprano, anche per mostrare la sua bravura rispetto ai musicisti che l’avevano preceduto.
Variazione e metamorfosi
Per rendersi conto della differenza tra variazione e metamorfosi, bisogna leggere quanto hanno scritto un interprete e un critico. L’interprete è Glenn Gould, il quale ha scritto che l’aria iniziale evita “qualsiasi atteggiamento genitoriale per la sua progenie” e che quell’aria rifiuta “ogni impulso generativo”; la prova di questo sta già nel passaggio tra l’aria e la prima variazione. Più tardi il grande studioso di Bach Peter Williams ha sottolineato che l’aria non si riascolta di nuovo, salvo alla fine. I trenta movimenti sono trenta “saggi musicali distinti, marcatamente differenti” con cui Bach spinge “più a fondo il principio di differenza”.
Un argomento a favore di questa tesi è il paragone che può farsi con vere variazioni, come le Variazioni Diabelli (1819-23), anche se Beethoven, forse per copiare Bach, intitolò anche le Diabelli “Veränderungen”, o con il secondo movimento del Quartetto per archi in la minore numero 3 (1842) di Schumann (1842), con le sue quattro variazioni, o con le Études symphoniques Opera 13 (1837) dello stesso autore, con un tema e nove variazioni, per pianoforte.
Da ultimo, c’è una questione di stile: le variazioni non si addicevano a uno studioso serio come Bach, perché erano il mezzo di far sfoggio di virtuosismo, ciò di cui Bach non aveva bisogno. Se si vuol fare un paragone, l’opera che stiamo per ascoltare va messa a fronte con le 250 storie della mitologia greca raccontate da Ovidio nel suo famoso libro, dove predominano trasformazioni radicali, come quella di Aretusa, una fanciulla tramutata in fonte e poi in fiume.
Bach era un musicista dotto (sappiamo che egli conosceva l’opera di Vivaldi, Scarlatti, Couperin, Rameau e Händel, che precede di circa cinquant’anni l’opera che stiamo per ascoltare, e che anzi probabilmente le prime 18 battute furono ispirate dalla Ciaccona di Händel, che è del 1733), come ha sottolineato il grande studioso Christoph Wolff già nel titolo della sua fondamentale opera “Johann Sebastian Bach. the Learned Musician”, del 2001.
La struttura
Le Variazioni Goldberg vanno immaginate come il ciclo di un viaggio in trenta paesi diversi, che finisce nel luogo di partenza. Sono dieci gruppi di tre movimenti con l’aria iniziale che viene ripetuta alla fine. I 32 elementi, pur ricchi di arpeggi, trilli, fraseggi, scale, sono costruiti con rigore geometrico. Salvo quattro movimenti, ognuno di essi ha 32 battute.
Bach esercita la sua fantasia muovendosi in una griglia di regole, così come per il giurista la libertà è facoltà di scelta all’interno di norme, per non diventare arbitrio. L’ordine interno di quest’opera è stato avvicinato all’architettura, con due pilastri e un colonnato. Il grande studioso di Bach Alberto Basso, nel monumentale lavoro “Frau Musika. La vita e le opere di Johann Sebastian Bach”, pubblicato tra il 1979 e il 1983, ha osservato che Bach, negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè negli anni 40 del ’700, fu molto interessato alla speculazione sul sistema dei suoni e alla loro organizzazione e concatenazione in forme geometriche (una dimostrazione in Giancarlo Bizzi, “Specchio invisibile dei suoni. La costruzione dei canoni: risposta a un enigma”, del 1982). In quel periodo accettò di far parte della società della scienza musicale creata dal suo allievo Lorenz Christoph Mizler, che era anche medico e matematico; compose meno musica religiosa e si dedicò a musica per la tastiera, come il secondo libro del Clavicembalo ben temperato, l’Arte della fuga, l’Offerta musicale (oltre alla Messa in si minore).
Nei 32 elementi delle Goldberg si trovano fusi insieme, da un lato, quella che veniva chiamata la musica aritmetica, intesa come attività scientifica ispirata alle formule segrete, alla passione dell’occulto, alla cabalistica; dall’altro, canoni, contrappunto, variazioni, impiegati in contemporanea, che assorbono forme diverse di danza e persino due canti popolari, uno dei quali parlava di cavoli e rape. La ricchezza è tale che in uno degli elementi delle Goldberg Schönberg riconobbe la prima composizione con dodici note della storia della musica.
In sostanza, l’ultimo Bach, quello dell’ultimo decennio della sua vita, ci invita a non lavorare chiusi nei propri settori, e quindi a varcare le frontiere, pur facendo il proprio mestiere. Bisogna immaginare Johann Sebastian molto diverso da quel ritratto che egli stesso chiese nel 1746 a un mediocre pittore come Haussmann, che ce lo presenta come un parruccone, con il volto grassoccio da contadino.
Un fiume carsico: la fortuna di Bach e delle variazioni Goldberg
Le Goldberg hanno avuto una parte esigua negli studi pianistici successivi e sono state poco eseguite nei concerti, anche se si sa che Liszt ne suonò alcune. Alla morte di Johann Sebastian Bach, prevalse un nuovo stile musicale, tra i cui sostenitori fu il figlio Philipp Emanuel e la musica del padre fu dichiarata fuori moda, come osservato, nel 1950, nel suo volume “Stile e idea”, da Arnold Schönberg. All’inizio dell’800, le Variazioni Goldberg furono considerate da un osservatore critico tra le musiche “perfette per svuotare le sale”. Sappiamo tuttavia che Beethoven fu un ammiratore di Bach tanto che scrisse “das ist nicht ein Bach, das ist ein Meer”, cioè questo non è un ruscello, questo è un mare.
Gli inventori della “musica nuova”, della “libera dissonanza” o “pantonalità”, hanno invece studiato Bach, il musicista che ha portato al massimo grado di sviluppo il sistema che essi volevano superare. Nella fase della maturazione artistica di Schönberg si collocano alcune trascrizioni di Bach. Arnold Schönberg, difendendo Johann Sebastian contro i suoi successori, a partire dal suo stesso figlio Carl Philipp Emanuel, ha scritto che nel padre “persino le parti di transizione e subordinate sono sempre piene di carattere, di inventiva, di fantasia, di espressione e […] egli sa scrivere melodie scorrevoli e piene di equilibrio, più belle, ricche ed espressive della musica di tutti i Keiser, Telemann, Carl Philipp Emanuel Bach che lo consideravano fuori moda”. Bach padre ha svolto un ruolo essenziale nell’elaborazione della “composizione con dodici note” tanto che Schönberg e i suoi allievi Berg e Webern fanno continuo riferimento a Bach, forse anche per la loro inclinazione per la “mistica dei numeri”.
Si può dire che le Goldberg abbiano avuto due tipi di fortuna. In una prima fase, durata un secolo e mezzo, quando è divenuta predominante la musica romantica, la sua influenza è stata indiretta e parziale. Considerate esercizio per tastiera, come erano state denominate, singoli motivi, singoli accorgimenti tecnici, singole modalità espressive sono lentamente penetrati nella nuova musica, divenuta predominante. Con il Ventesimo secolo, invece, l’influenza è divenuta diversa, dell’opera nella sua interezza, perché si è finalmente intesa l’importanza della sua complessa struttura musicale e apprezzata la ricchezza motivica.
L’interpretazione musicale e la sua originalità
Altre opere d’arte richiedono un rapporto bilaterale tra l’artista e il fruitore, il poema e chi lo legge, il dipinto e chi lo vede. La musica, invece, come il teatro, si inserisce in un rapporto trilaterale, autore, interprete, ascoltatore. L’interprete, erroneamente definito esecutore, è un mediatore. Nel rapporto tra il primo e il terzo c’è anche uno strumento: le Goldberg hanno avuto una ventina di arrangiamenti per altri strumenti. Le cose si complicano quando alla musica si aggiungono le parole: il famoso Lied di Mignon, Kennst du das Land, dal Wilhelm Meister di Goethe, è stato musicato in modi diversissimi da Schubert, Beethoven, Liszt e Wolf. Più tardi Wagner aspirò alla fusione di Wort, Ton, Drama, parole, musica, dramma.
Dico questo perché, quando si ascolta la musica, bisogna rendersi conto dell’importanza dell’interprete. Emilio Betti, un grande giurista italiano, vissuto tra il 1800 e il 1968, professore in questa università, fratello del drammaturgo Ugo, nella sua “Teoria generale dell’interpretazione” (1955), dedicò un capitolo all’interpretazione musicale, riprendendo le osservazioni di Wilhelm Furtwängler in “Gespräche über Musik” in cui distingueva tra il contenuto lirico d’anima, l’elemento spirituale (“seelisches”), e lo strumentario tecnico, l’elemento tecnico (“technisches”). Betti sottolineava che l’interprete deve avere la capacità di riesprimere un’idea altrui, ma anche una capacità inventiva che presume nell’esecutore una personalità di artista. Interpretare vuol dire anche ricreare. E questo vale a maggior ragione per un’opera come le Goldberg, frutto del genio inventivo di uno sperimentatore come Johann Sebastian Bach, che non possono essere riprodotte meccanicamente, ma vanno ogni volta reinterpretate.
Alla musica si applica quanto scrive Nietzsche in “Umano, troppo umano” (1878-79): “Ma si deve […] negare a coloro che vengono in seguito il diritto di far rivivere le opere antiche secondo la loro anima? No, perché solo per il fatto che noi diamo loro la nostra anima, esse possono continuare a vivere: solo il nostro sangue fa sì che esse ci parlino. Il presentarle in modo veramente “storico” parlerebbe come uno spettro a degli spettri. Si onorano i grandi artisti del passato meno con quella sterile soggezione che lascia stare ogni parola, ogni nota così come furono messe, che con efficaci tentativi di riportarli sempre di nuovo alla vita”.
Infine, è stato scritto che la fortuna di un libro dipende dalla capacità dei suoi lettori. Voltaire ha scritto che i libri più belli sono quelli fatti per metà dai lettori. Anche per questo la musica è diversa, perché, ogni volta che la si esegue, c’è un mediatore che reinterpreta e un nuovo ascoltatore.
Non parlare della musica
Stravinsky ha scritto che parlare della musica è faccenda rischiosa e allora si preferisce ripiegare sugli elementi di contorno: la cosa è facile e si passa per spiriti profondi. Stravinsky criticava, tra l’altro, le sciocchezze scritte intorno a Bach.
Non ci resta che seguire l’indicazione di Bach che, nel titolo delle Goldberg, ha scritto che servono “zur Gemüths-Ergetzung” degli appassionati, cioè per il ristoro dell’anima degli amanti della musica. Buon ascolto.
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