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(Ansa)
Non sempre Sanremo è Sanremo
L'oblio per alcuni vincitori e il successo per chi al Festival non è mai andato
L’imprevedibile algoritmo dei classici. Sanremo amplifica gli ascolti ma non è tappa indispensabile per la notorietà di una canzone. "La classifica finale non ha intuito clamorosi successi mondiali" dice Verdelli, e cita come caso emblematico Bocelli
Chissà se Nostalgia balorda, corroborata dall’aggettivo, avrà successo più longevo della Nostalgia cantata da Blanco nel 2023, e se il brano con cui Olly ha vinto il Festival di Sanremo potrà aspirare addirittura alla provvisoria immortalità di Celeste nostalgia di Riccardo Cocciante o di Nostalgia canaglia di Al Bano e Romina (perché non è solo la qualità a garantire la durata, ma anche un’invadente orecchiabilità). La curiosità che segue a ogni Festival è puntuale come i fiori di prugno sbocciati tra gli ultimi geli di febbraio e i prossimi giardini di marzo: chissà se fra un anno ascolteremo ancora il pezzo vincitore, se invece sarà surclassato da un brano finito agli ultimi posti o da una canzone che nemmeno s’è affacciata a Sanremo. E chissà quanti, dei 13 milioni e 400 mila che hanno visto la finale, riescono tuttora a intonare all’impronta La noia con cui Angelina Mango trionfò nella penultima edizione, con una successiva onnipresenza che pare l’abbia logorata e costretta al riposo.
Persistono intanto nella memoria collettiva melodie assai più vecchie, patrimonio acustico persino di chi è nato dopo la loro creazione, e che accomunano tutti in quell’effetto nostalgia non più titolo di canzone ma emozione condivisa. E’ un sentimento che ha ispirato le ospitate all’Ariston di Antonello Venditti e di Edoardo Bennato, perché Ricordati di me e Amici mai le conoscono pure i ragazzi e Sono solo canzonette (che ha dato il titolo anche al documentario sul rocker napoletano trasmesso il 19 febbraio su Rai 1) racconta il sempiterno conflitto tra politica e pop, tra gli artisti e gli impresari di partito, fra pretese d’impegno e libertà di ispirazione. Quando Bennato la cantò per la prima volta diede uno scrollone ai diktat degli anni Settanta, e chi visse quei tempi lo ricorda con un senso di liberazione al pari del tour Banana Republic di Dalla e De Gregori. Ed è un peccato che il “menestrello”, settantanove anni a luglio, si tinga i capelli come se un cantautore non dovesse invecchiare, mentre il collega di trent’anni più giovane, Brunori Sas, si è esibito con la capigliatura brizzolata che natura elargisce. Piuttosto, a L’ albero delle noci dell’artista calabrese è stata imputata l’eccessiva risonanza con Rimmel di De Gregori, altro brano consegnato alla gloria senza passare per Sanremo: già mezzo secolo è trascorso dalla sua pubblicazione.
A chi domanda quali siano gli ingredienti per la confezione di un classico, gli addetti ai lavori rispondono che una ricetta non c’è, piuttosto esiste un’alchimia di circostanze favorevoli. E se il Festival amplifica gli ascolti (e le serate per gli artisti nei mesi successivi), non è mai stato tappa indispensabile per il successo. Esempi illustri fioccano: “Un brano come I migliori anni della nostra vita non ebbe bisogno del Festival ma è rimasto tra le più indimenticabili interpretazioni di Renato Zero” racconta l’autore della musica, Maurizio Fabrizio. “Fu una canzone dal percorso tormentato, perché passò per tanti provini ma nessuno la incise finché non la prese Renato che realizzò la magia, anche se quando la scrissi non pensavo a un esecutore particolare”. Neanche per un altro brano diventato un classico Fabrizio pensò a Sanremo o a chi dovesse cantarlo: Che fantastica storia è la vita di Venditti, che diede anche il titolo a un album pubblicato nel 2003. “Conobbi Antonello tramite il suo produttore Sandro Colombini e mi chiese la musica per qualche canzone. Gli diedi per prima proprio Che fantastica storia è la vita ed è stato il maggior successo condiviso con lui, eppure lo avevo concepito addirittura come pezzo solo strumentale”, ricorda Fabrizio.
Se non c’è una ricetta, è innegabile che occorrano alcuni fattori per proiettare un brano verso la fama prolungata: “Se la musica è bella, se si sposa a un testo adeguato e l’interprete è giusto si realizza l’amalgama, ma spesso te ne accorgi quando la canzone è già decollata. Accadde così anche per Acquarello con Toquinho nel 1983”. Altri tempi. Quando il metabolismo del mercato era più lento e l’offerta più meditata, la durata consentiva a certe canzoni di derogare addirittura al Discorso sul metodo di Cartesio: “Persino nella moda dei nostri abiti quel che ci è piaciuto dieci anni fa, e che forse ci tornerà a piacere da qui ad altri dieci anni, ci sembra ora stravagante e ridicolo”. Ma a differenza delle spalline imbottite anni ottanta, che solo adesso si stanno riesumando nell’abbigliamento (come ha fatto il cantautore Lucio Corsi), una canzone come Ti lascerò, vincitrice del Sanremo 1989, ha sfidato i decenni senza patire le mode. E’ rimasta sempreverde come il romanzo La grande sera di Giuseppe Pontiggia, che s’aggiudicò lo Strega di quell’anno, è assurto a classico della letteratura (qualcuno immagini se fra trentasei anni si ascolterà Olly e se L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio risulterà reperibile sugli scaffali dei tascabili).
“Non scrissi Ti lascerò pensando a Fausto Leali e Anna Oxa, che a Sanremo dovevano portare un altro brano”, ricorda il compositore Franco Fasano, “ma leggendo una lettera d’amore con cui Fabrizio Berlincioni si congedava da una donna più giovane. Siccome avevo già abbozzato una canzone che doveva chiamarsi Ti porterò, riadattai a quel bellissimo testo la melodia che avevo in testa e ne sortì un crescendo emotivo senza bisogno di ritornello, sostituito dal duetto degli interpreti. Mi ispirarono i pensieri di Berlincioni più che la volontà di realizzare un prodotto discografico. Perciò, quando eseguo Ti lascerò nei miei concerti, il pubblico ancora s’emoziona: non canto come Leali ma trasmetto una sensazione di verità e propongo il brano integrale, senza i tagli subiti a Sanremo perché durava troppo”, spiega Fasano. Le cose ora sono diverse: “Potresti chiedere all’intelligenza artificiale una canzone alla Fasano che si chiami Non ti lascerò: avresti in pochi secondi testo e musica in quello stile, però senza una storia dietro come fu quella lettera di Berlincioni”. I “senza” sono tanti: “Oggi è rara la personalità timbrica naturale che distingueva un interprete dall’altro” e la creatività patisce l’omologazione: “Per un capolavoro come Vecchio frak di Modugno bastava una chitarra, mentre ora armonie, ritmiche e arrangiamenti s’assomigliano un po’ tutti per nascondere la povertà di idee. Ricordo che quando Toto Cutugno cantò L’italiano”, prosegue Fasano, “veniva preso per i fondelli nella sala stampa dell’Ariston, invece la canzone è diventata quasi un inno nazionale in tutto il mondo proprio per l’orecchiabilità. Adesso si scrivono testi con la mentalità dei rapper: tante e tante parole, che reggerebbero anche togliendo quel po’ di musica. Non è questione di direttori artistici: a Sanremo comandano le visualizzazioni”.
Sostiene Robert Schumann nella regola di vita musicale numero 28: “Tutta la musica di pura moda ha vita corta, e se voi persisterete a coltivarla passerete per uno sciocco, che nessuno stima”.
E’ dunque perdonabile volgersi indietro per capire e carpire qualche altro segreto di longevità artistica: “C’era maggiore selezione, non foss’altro perché produrre un disco costava molto di più. Occorrevano tanti provini con i musicisti, che andavano pagati, e bisognava superare una trafila di consensi interni alla casa discografica e di ascoltatori professionali. Perciò gli autori ci pensavano prima di proporre un brano: se non avessi gettato nel cestino le idee che mi autocensuravo, oggi mi ritroverei con un repertorio sterminato”, racconta Claudio Mattone, veterano degli autori. “Chiunque ora abbia voglia di cantare può disporre in casa dell’attrezzatura per registrare e mettere in rete tutto ciò che gli piace, ma la sovrapproduzione porta a un’ovvia confusione: una canzone si accavalla a un’altra e diventa molto difficile la nascita di un classico”. Inevitabile lo scadimento di qualità: “Quando c’era più preparazione e meno software, se ti trovavi in un vicolo cieco della composizione musicale dovevi conoscere i passaggi armonici per uscirne e ne eri quasi geloso, per cui difficilmente accettavi di firmare un pezzo con altre sei persone come è accaduto poi”, aggiunge Mattone. “Mi sembra che il pop sia diventato più simile a un happening, a un body show dove la pettinatura, il vestito stravagante, il personaggio prevalgono sui contenuti ai fini degli ascolti. Se un tempo il vanto di un Festival era scoprire il cantante che restava nella storia, ora s’ambisce solo all’audience”. Tutto da rifare? “Per carità, non mi atteggio a trombone: piuttosto darei consigli che non avrei dato vent’anni fa. Allora avrei detto: preparati bene, selezioniamo i pezzi per costruire un album, creiamo una solida base. Quando iniziai a produrre Eduardo De Crescenzo lavorai due anni per capire la sua vocalità, poi scrissi la musica di Ancora. Adesso non vale la pena: a un ragazzo direi di buttarsi, di provare e vedere che succede. Se ha fortuna basta un pezzo azzeccato per avviare la carriera e guadagnare, ma per quanto mi riguarda non m’interessa più. Mi sento come un lottatore che non capisce quali regole vigono: è lotta libera, greco-romana o wrestling? Preferisco dedicarmi al teatro e alla letteratura”.
Diceva Pino Daniele che a Sanremo ci va chi non ha ancora raggiunto il successo pieno o chi deve sempre rinverdirlo, ma il critico musicale e regista Giorgio Verdelli (che ha firmato un docufilm su Jannacci prossimamente in onda su Rai 3) cita l’imprevedibilità della casistica: “Paolo Conte al Festival non ha mai messo piede come interprete, ma come autore fu rifiutato nel 1985 il suo Spaccami il cuore, affidato a Mia Martini. Fu un errore perché il brano, tradotto come Don’t break my heart, sarebbe stato interpretato da Miriam Makeba e Dizzy Gillespie. Per non dire di quanto le classifiche abbiano tradito il destino delle canzoni: nessuno ricorda il titolo con cui i Matia Bazar vinsero il Festival del 1978, ma è una edizione indimenticabile per la giovanissima Anna Oxa che cantò Un’emozione da poco, scritta da Ivano Fossati, e per Rino Gaetano con Gianna, perché gli fu proibita la troppo trasgressiva Nuntereggae più”.
Se almeno una regola può ricavarsi, è che non sono televoti né giurati a battezzare un classico. “La classifica finale del Festival non ha intuito clamorosi successi mondiali”, dice Verdelli: “Un caso emblematico fu Con te partirò di Bocelli, che nemmeno arrivò nei primi tre posti nel 1995. E chi poteva immaginare che Non amarmi, vincitrice della sezione novità nel 1992, nella versione di Jennifer Lopez avrebbe spopolato in America Latina come No me ames”. Per certe canzoni, quel che fa la differenza può arrivare molto dopo: “Nel 1962, quando Pino Donaggio cantò Io che non vivo (senza te) non ebbe subito un successo strepitoso, poi accadde che Elvis Presley la sentì nella versione di Dusty Springfield e pubblicò You Don’t Have to Say You Love Me nel 1970. Tranne che due canzoni napoletane, è l’unico brano italiano che Elvis abbia mai inciso. Sulle ali di questo successo, Donaggio avrebbe composto molte colonne sonore anche per i film di Brian De Palma”.
La durata forse non è più un’aspirazione di artisti e agenti discografici, perché “il pop è in continua evoluzione. Sono cambiate la struttura della canzone e il modo di cantare e bisogna accettare le novità”, osserva Maurizio Fabrizio. “Anche a me la musica di adesso sembrerebbe tutta uguale, ma se parlo con mio figlio ventenne mi spiega come mai non è così. Magari un giorno, come è già accaduto, si tornerà a scrivere in modo più tradizionale”. I classici però resistono tetragoni: Almeno tu nell’universo, di Bruno Lauzi e Fabrizio, è una generatrice di cover dal 1989, quando la cantò Mia Martini, e il tempo ha ampiamente compensato i diciassette anni che attese per venire pubblicata. L’ingrediente peculiare di quel brano? “Presi spunto nel passaggio armonico dall’adagio di una sinfonia di Mahler”, racconta Fabrizio. La fortuna non basta mai da sola.