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Foto LaPresse
Opera
Non portate a Milano dei cattivi cantanti perché piacciono a Vienna
Il nuovo Eugenio Onegin della Scala ha come vera protagonista Tatiana, nonostante l'opera sia titolata al maschile. Del resto Ciajkovskij voleva glorificare la donna russa. Ma sul podio spicca Timur Zangiev
Il nuovo Eugenio Onegin della Scala soffre di un problema di fondo. L’opera è titolata al maschile, ma la vera protagonista è Tatiana, e del resto Ciajkovskij voleva glorificare la donna russa. Aida Garifullina è bella da vedere ma non da sentire: voce troppo piccola per la Scala e usata pure maluccio, con acuti gridacchiati e non sempre intonatissimi. Abbiamo insomma una Despina che fa Tatiana, e speriamo che sia finito una volta per tutte quest’andazzo di portare a Milano dei cattivi cantanti perché piacciono a Vienna: non si sono fatte le Cinque giornate per nulla. Il basso che fa Gremin, comunque, voce da orco con le adenoidi, è anche peggio.
Ci sono invece un Onegin solido e sonoro benché un po’ monocorde, Alexej Markov, e un’ottima Olga, Elmina Hasan; si risente Julia Gertseva come njanja Filippovna. Soprattutto, c’è Dmitry Korchak, Lenskij, che canta benissimo la sua aria e attacca il concertato del secondo atto con un pianissimo pieno di angoscia che ricorda Lemeshev, e ho detto tutto (macché Callas-Tebaldi o Pavarotti-Domingo, il vero derby lirico è quello fra Ivan Kozlovskij e Sergej Lemeshev: più spettacolare il primo – e preferito da Stalin –, ma nell’Onegin più poetico il secondo. La Russia degli anni Trenta non era l’ideale se volevi vivere a lungo; ma, quanto a tenori, che paese fantastico…). Sul podio, è ricomparso Timur Zangiev, già planato alla Scala a sostituire Gergiev defenestrato per putinismo dopo la prima della Dama di picche. Zangiev è un ottimo direttore, e in effetti tutto è irreprensibile. Mancano solo il romanticismo spinto fino al delirio, lo spleen disperato, il dolore irriducibile della rinuncia. Ma chi scrive ha avuto la fortuna di aver ascoltato Vladimir Delman a Bologna nel ’91, e con Mirella Freni, non con una soubrette, e da allora per lui l’Onegin non è più stato lo stesso.
Grande attesa, dopo la sua meravigliosa Kovancina, per la regia di Mario Martone. E’ un bello spettacolo, pieno di idee, che lascia però una curiosa sensazione di incompiutezza. Margherita Palli disegna steppe e cieli infiniti per l’atto campagnolo, dove Tatiana vive in un cubo tappezzato di libri che crolla, come lei, nel finale. Costumi contemporanei, con la grande trovata del duello Onegin-Lenskij risolto come una roulette russa. La festa del terz’atto è un gioco di ombre dietro un velario, molto suggestivo, anche se la Polacca eseguita come entracte non convince, e in generale si perdono i sottili distinguo coreografico-sociali di Ciajkovskij, per cui i contadini danzano balli popolari, i borghesi il valzer e i nobili la polacca. Il duetto finale sul palcoscenico della Scala completamente vuoto è un po’ stereotipato, con Tatiana e Onegin che fanno quel che fanno ogni Tatiana e ogni Onegin. Molti applausi alla mia replica, ma alla prima, pare, anche diverse contestazioni alla regia, visto che ormai alla Scala non passano né quelle tradizionali perché troppo tradizionali né quelle moderne perché troppo moderne. Per il nuovo sovrintendente Lucky Ortombina, un bel rebus.
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