Nel linguaggio di Haydn si trovano le premesse della profondità che caratterizzerà i maestri successivi (De Agostini/Getty Images) 

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Haydn è stato il vertice del classicismo, certo, ma anche un'inclinazione allo humour sorprendente

Stefano Picciano

Mentre il suo stile rappresenta il vertice della classica sophrosyne si caratterizza al contempo per un’inedita tendenza ad assumere venature introspettive e profonde. Il legame con Vienna e l’incontro con Mozart

Immaginiamo una raffinata dimora nella Vienna del tardo Settecento, un elegante salotto, alcune persone cordialmente riunite attorno a un tavolo. Siamo in Schulerstrasse 846, nell’edificio oggi noto col soprannome di Figarohaus poiché proprio tra quelle mura l’ineguagliata partitura de Le nozze di Figaro avrebbe visto la luce. E’ la casa di Mozart, in una serata estremamente suggestiva: oltre a Mozart, alla moglie, al figlio Karl Thomas, c’è il padre Leopold, giunto a trovarlo a Vienna, poi alcuni amici e – ospite d’onore della serata – Franz Joseph Haydn, il compositore allora più celebre e ammirato di tutti. E infatti, nella gemütlichkeit di quella serata, risuonarono tre quartetti dedicati da Mozart proprio ad Haydn, tra cui il K465 che, per l’armonia del tutto insolita della prima sezione (“celebre pagina piena di curiose arditezze armoniche”, scrisse Bernhard Paumgartner) sarebbe poi stato soprannominato Le dissonanze in riferimento a quelle prime ventidue battute che – commenta Wolfgang Hildesheimer – “hanno gettato nella costernazione o mandato in collera una generazione di interpreti e ascoltatori”. Mozart avrà probabilmente eseguito la parte della viola, da lui prediletta, ma Haydn avrà preso in mano anch’egli uno strumento? Quali saranno stati i dialoghi, i commenti, le parole che gli illustri maestri si scambiarono in quei minuti? Certo è che, secondo la testimonianza lasciata dal padre di Wolfgang in un’immagine dai tratti assai enfatici, dopo l’esecuzione Haydn si rivolse apertis verbis al genitore: “Affermo davanti a Dio, da uomo onesto, che vostro figlio è il più grande compositore che conosco”. Si faceva, in quegli istanti, la storia della musica, e le parole che Haydn riferisce a Mozart acquistano tanto più valore quanto più si approfondisce la figura del compositore che rappresenta il culmine dell’epoca classica. 

   

Per recuperare qualche immagine della vita di Haydn la scelta migliore è quella di rivolgersi alla testimonianza di due contemporanei: il primo è Albert Christoph Dies, un pittore che visse a lungo in Italia (a Roma abitò per vent’anni, ricevendo da Goethe l’incarico di porre il colore nei disegni realizzati durante il suo viaggio nella penisola) e nel desiderio di scrivere una biografia ebbe l’opportunità di effettuare una lunga serie di colloqui, recandosi ripetutamente nella casa di Haydn, nel quartiere viennese di Gumpendorf, dove il compositore ormai anziano “sempre vestito di tutto punto” riceveva l’ospite per affidargli le sue memorie. Il secondo è Georg August Griesinger, un diplomatico che ebbe con Haydn una familiare frequentazione: i suoi scritti, pubblicati dapprima separatamente, vennero riuniti in un testo dato alle stampe nel 1810 al quale si affiancò, due anni più tardi, la biografia che l’italiano Giuseppe Carpani – anch’egli basandosi su alcuni contatti diretti con Haydn – pubblicò a Milano (del raro volumetto si trova qualche costosissima copia in certe nostre librerie antiquarie) nel 1812.

 

Nato nel 1732 nella cittadina austriaca di Rohrau, Joseph Haydn visse l’infanzia in un contesto umile ma caratterizzato da familiarità con la musica: le canzoni che in casa risuonavano dovettero rimanere ben impresse nella memoria del bambino che a otto anni entrò nel coro di voci bianche della Cattedrale di Santo Stefano, a Vienna. Quelli della gioventù sono per Haydn anni di ristrettezze economiche: la soffitta che prende in affitto è priva di riscaldamento, ma né il freddo né l’acqua che entra dal tetto nei giorni di pioggia possono abbattere l’indole ottimista del giovane che trova consolazione sedendosi al clavicembalo e immergendosi nei primi esperimenti creativi (“Quando sedevo davanti al mio vecchio cembalo roso dai tarli mi sentivo felice”). Un giorno entra in una libreria musicale cercando un trattato di composizione su cui continuare gli studi: qui si verifica una circostanza curiosissima, perché è il libraio a consigliargli il volume di Carl Philipp Emanuel Bach (che – almeno fino alla Bach Renaissance dell’Ottocento romantico, fu compositore assai più celebre del padre Johann Sebastian): è suggestivo pensare a quanto questo suggerimento abbia influenzato il corso della storia della musica, se Haydn nella maturità avrebbe individuato proprio in Emanuel Bach l’unico maestro in cui riconoscere un’influenza sul proprio stile. 

   

       

Dopo alcuni periodi di servizio presso famiglie nobili, Haydn trova la sua occupazione definitiva nel 1760 alla corte degli Esterhazy, una delle casate più importanti dell’Impero asburgico, inserendosi nelle dinamiche del mecenatismo con esiti estremamente produttivi: oltre cento sinfonie, ottanta quartetti, venti opere teatrali, centinaia di pagine cameristiche costituiscono il catalogo di un compositore a cui venne lasciata estrema libertà creativa. Siamo nell’epoca – come si vede dalla copiosità della scrittura – in cui la composizione è ancora lontana dal divenire il luogo dell’espressione di individualità che sarà invece tipica del Romanticismo, facendo della partitura il luogo della soggettività dell’autore; in quest’epoca l’opera è ancora l’esito di un gesto artigianale, orientato alla rapida produzione di pezzi destinati all’intrattenimento e privo della prorompente individualità che condurrà la musica verso la monumentalità romantica: Haydn scrive più di cento sinfonie, Mozart quasi cinquanta, Beethoven solamente nove. Se è vero che – come osservò Hoffmann da una prospettiva romantica – “l’espressione di un animo ingenuo e lieto domina nelle composizioni di Haydn”, si può notare tuttavia che nel suo linguaggio di claritas e proportio inaudite si trovano le premesse della profondità che caratterizzerà i maestri successivi, e mentre il suo stile rappresenta il vertice della classica sophrosyne si caratterizza al contempo – come avviene anche nel tanto ammirato Emanuel Bach – per un’inedita tendenza (per esempio nella Sinfonia 39, nelle Sinfonie 44 e 45, nei Quartetti dell’op. 20) ad assumere venature introspettive e profonde. Dal 1766 una proprietà degli Esterhazy a sud di Vienna viene trasformata, sull’onda del fascino destato da Versailles, in una sontuosa dimora arricchita da rigogliosi giardini, un teatro e varie sale da concerto e Haydn – scrive Giorgio Pestelli – “vive e lavora in questo ritiro dorato, fornendo tutta la musica che gli viene richiesta in una solitudine rotta solo da brevi soggiorni a Vienna”. Un’esistenza per lo più sedentaria, nella quale si compie una parabola artistica che culmina quando – rinunciando agli inviti che gli giungevano dalla corte di Napoli – Haydn cede alle garbate pressioni dell’impresario Johann Peter Salomon, che lo porta con sé a Londra. La partenza risale al 15 dicembre 1790, dopo una giornata trascorsa in compagnia di Mozart, che all’atto di congedarsi gli rivolge parole commosse: “E’ il nostro estremo saluto in questa vita”. L’itinerario di Mozart sarebbe terminato l’anno dopo e Haydn, venendo a ricevere la notizia con qualche settimana di ritardo, avrebbe confermato la sua immensa stima: è significativo il fatto che, nel 1787, rispondendo per lettera a chi gli chiedeva di comporre un’opera buffa per il teatro di Praga, Haydn avesse riferito: “Correrei un grosso rischio, perché difficilmente qualcuno è in grado di stare al fianco del grande Mozart”. Nella capitale britannica ottiene i più altisonanti successi, ma si lamenta per le condizioni che non favoriscono la concentrazione (“Vorrei scappare un po’ a Vienna per poter lavorare in pace, qui il rumore dei venditori di strada è insopportabile”) ed è protagonista di serate passate alla storia. Nel 1795, malgrado i sovrani inglesi insistessero per indurlo a rimanere offrendogli un alloggio a Windsor, Haydn rientrò a Vienna, portando con sé il libretto di quello che sarebbe divenuto il suo oratorio più celebre, La Creazione, le cui esecuzioni (una di esse con Beethoven in platea) avrebbero consacrato in patria la celebrità del compositore.

     

L’estrema inclinazione al buonumore, lo humor, la tendenza allo scherzo trovano una delle manifestazioni più chiare nella Sinfonia 45, nata quando il principe Nicolaus decise di prolungare il soggiorno nella residenza estiva. I membri dell’orchestra, desiderando rientrare a Vienna dalle loro famiglie, espressero le loro lamentele al compositore e Haydn concepì una ironica ed eloquente invenzione musicale: scrisse le parti in modo che, terminata la propria sezione, ogni esecutore potesse alzarsi dalla sedia, spegnere il lume e uscire dalla compagine sparendo alla vista del pubblico. In tal modo la sinfonia riduce gradualmente il suo organico, il palco si fa sempre più buio e deserto, fino al momento in cui l’ultimo degli orchestrali, rimasto in solitudine, conclude l’esecuzione. Quella sera, ascoltando divertito la Sinfonia degli addii il principe mostrò di intendere il messaggio: “Haydn, ho capito: domani questi signori potranno partire”. Tale inclinazione all’ironia si accompagnava al rigore di un temperamento estremamente ordinato, che si riflette anche sui manoscritti: “Questo – disse – è perché non scrivo mai nulla finché non ne sono sicuro”. A chi gli domandò se la sua creatività fosse rapida, rispose: “Ho sempre composto con ponderazione e cura; queste sono le opere destinate a durare nel tempo”. Era solito svegliarsi presto e per prima cosa sedersi al pianoforte ad appuntare qualche idea: “Improvvisava – scrive Dies – finché non aveva trovato un’idea corrispondente a ciò che cercava, poi la metteva sulla carta”. Non tornava però a questi appunti se non nel pomeriggio, per svilupparli in temi e dare loro forma, in una giornata rigidamente organizzata, con una passeggiata al mattino e una alla sera. “Scrivevo ciò che mi sembrava buono, poi lo correggevo secondo le regole dell’armonia”. Ma, pur trovandoci nel cuore del classicismo musicale, vi è un punto in cui la creatività sembra oltrepassare le regole, la bellezza infrangere gli schemi: “Un paio di volte mi sono preso la libertà di offendere (…) le regole dei trattati, e ho sottolineato quei passaggi con le parole ‘con licenza’. (…) Il mio orecchio non vi percepiva alcun errore e anzi mi pareva di sentirci qualcosa di bello (…) per cui domandai licenza di trasgredire le regole”. E ancora: “Quando ritenevo che qualcosa fosse bello (…) allora preferivo lasciarmi sfuggire qualche piccolo errore di grammatica”.

   

Commenta acutamente Dies rievocando un passo di Orazio: “Per esprimere cose non ancora svelate non è proibito inventare parole inaudite”. Musica assoluta, dunque, priva di riferimenti esterni o qualsivoglia componente descrittiva (“Nella musica strumentale lascio libero corso alla fantasia”) e unicamente alla ricerca della bellezza, in una umiltà che lo portava a schermirsi dinanzi alle lodi: “Non parlate in questo modo; guardatemi come si guarda un uomo a cui Dio ha donato un qualche talento (…) e che pensa di essersi reso utile al mondo; non ho altre ambizioni”. 

   

Si porrebbe qui l’occasione di cercare di definire che cosa sia lo stile classico, quale sia il segreto di una bellezza capace di stupire l’uomo di ogni tempo: rinunciamo volentieri al troppo ambizioso proposito, limitandoci a osservare, con le parole di Charles Rosen, che dopo la poetica della meraviglia dell’età barocca e il suo sfociare nel manierismo del tardo Seicento, dopo l’eleganza un poco formale del rococò ecco che nel fluire della storia tensioni contrapposte – fino a quel momento alternative – concorsero verso l’unità: “Per dirla in breve, in quegli anni il compositore doveva scegliere fra sorpresa drammatica e perfezione formale, fra espressività ed eleganza: di rado poteva averle entrambe allo stesso tempo. Solo quando Haydn e Mozart (…) crearono uno stile in cui l’effetto drammatico potesse apparire sorprendente e insieme logicamente motivato, in cui l’espressività si sposasse con l’elegante, solo allora nacque lo stile classico”. Nella sua casa in un sobborgo di Vienna trascorse gli ultimi anni in solitudine, ma ricevendo l’affetto di molte persone. Le cronache ci riferiscono che, abbandonata la rigida organizzazione quotidiana d’un tempo, amava giocare a carte con i domestici e spesso invitava i bambini del quartiere nel suo giardino, offriva loro i frutti di qualche albero e si divertiva a guardarli giocare. Ci descrivono l’abbattimento del suo animo, al sopraggiungere della guerra, mentre ascoltava le finestre di casa violentemente vibrare ai colpi di cannone delle truppe napoleoniche su Vienna. Provato da una fragilità fisica che gli impediva di lavorare, dialogando con alcuni amici un giorno se ne uscì dichiarando che ciò che si poteva fare era molto più di ciò che aveva fatto, confidando di avere alcune idee “che avrebbero portato l’arte più lontano” ma che tuttavia non era più in grado di realizzare: è significativo, in questo senso, il fatto che egli abbia lasciato volutamente incompiuto l’ultimo Quartetto. “Il regno della musica è infinito”, aveva detto a un amico, quasi a riconoscere che la bellezza della musica non può esaurirsi in uno spazio circoscritto, ma continua ad affacciarsi verso orizzonti sempre nuovi.

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