
Massimo Biscardi, foto Ansa
a santa cecilia
Beethoven e gli altri dal vivo nell'epoca della loro riproducibilità digitale
Una guerra a bassa intensità tra passato e presente anima la scena musicale. Massimo Biscardi, nuovo presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, rilancia l’impegno per coniugare la grande tradizione con la musica contemporanea e l’innovazione digitale, mirando a una più ampia fruizione e valorizzazione della musica dal vivo
Una guerra a bassa intensità contrappone in chiave musicale passato e presente, anche se spesso riesce a ricomporli. Si dirama in conflitti diversi: tra innovazione e tradizione, tra il segno ibernato su un pentagramma e il calore del suo risveglio sonoro, tra vecchi arnesi di legno e d’ottone e la loro riproducibilità digitale. Si può tradurre in concreto e a farla semplice nella domanda: come e perché proporre al pubblico del 2025 (affezionato, appassionato o giovane cresciuto a streaming e playlist) la musica di Beethoven, dei suoi pari e dei suoi eventuali nipotini d’oggi? E, per scendere ancor più a terra, com’è possibile riempire per tre serate con quella musica dal vivo una sala di 2.800 posti, sia pure in una città capitale, con tutte le tentazioni del web? E poi: ne vale ancora la pena? A sbrogliare la matassa – in purezza, perché a Roma gli manca l’appiglio dello spettacolo e del carattere nazionalpopolare che per lo più mette in sicurezza il teatro d’opera – l’Accademia nazionale di Santa Cecilia ha chiamato Massimo Biscardi, da poche settimane presidente-sovrintendente della storica istituzione musicale il cui nome fa tutt’uno con la nostra orchestra più prestigiosa. A sentirlo, ci si aspetterebbe che manifestasse tutta la difficoltà dell’incarico. E invece, prevale l’ottimismo. La soddisfazione di aver trovato “una squadra con tanta voglia di guardare avanti e con un desiderio di movimento straordinario: abbiamo già avviato diversi progetti”. La fiducia “nella bellezza della musica nella vita delle persone. Non è un problema per noi che siamo qui e sappiamo quanto la nostra vita può cambiare grazie alla musica, il problema è di chi questo aspetto non lo conosce per nulla. Il nostro compito è rendere consapevoli gli altri, giovani e anziani, di questo arricchimento. E non ne farei tanto una questione di età: certe apparenze ingannano, abbiamo turni di abbonamento con una presenza elevatissima di giovani e in questo siamo nelle proporzioni italiane. L’impegno di fondo della nostra fondazione, in altre parole, è comunicare che conviene conoscere la musica per vivere meglio. E’ un impegno che non dovrebbero prendere le singole fondazioni, che sono poche e hanno poche capacità di penetrare nel tessuto sociale: lo dovrebbe prendere lo stato, direttamente”. (Però allo stato darà atto più avanti di fare la sua parte quanto a risorse erogate: piuttosto i privati potrebbero fare qualcosa di più se solo conoscessero i vantaggi fiscali e i “motivi sociali” dell’investimento in un’istituzione come Santa Cecilia).
“Nel nostro caso particolare – aggiunge Biscardi – c’è anche la lontananza del Parco della musica dal centro della città, il che ci preclude gran parte del potenziale pubblico dei turisti che diversamente, in una città come Milano, non possono non trovarsi almeno una volta davanti al Teatro alla Scala. Qui si viene apposta per un concerto, da qui il nostro impegno a educare alla necessità di ascoltare la musica. Ma stiamo pensando anche a chi si limita al perimetro del centro storico: dal 2027 vorrei riportare una stagione estiva a Massenzio”.
E i programmi? Entriamo nel vivo di uno di quei conflitti chiedendo a Massimo Biscardi se possono sempre vivere prevalentemente di tradizione le locandine dei concerti. Se qualche audacia è ammessa (la risposta è sì: la settimana prossima Daniel Harding dirigerà la Sinfonia “Asrael” di Josef Suk, anno 1907, prima esecuzione a Santa Cecilia). Se è l’istituzione che concede poco alla musica d’oggi o sono i compositori che con la loro musica si sono chiusi in una riserva. Dunque, cullare il pubblico in ciò che gli è più familiare o aprirgli nuove prospettive e magari scuoterlo nelle sue sicurezze? Tutt’e due, sembra dire il presidente dell’Accademia. “Da turisti, quando torniamo in una città in cui siamo già stati, siamo portati a rivedere gli stessi posti che abbiamo già visto. Forse è un moto dell’anima, tendiamo a rivederci tra oggi e ieri e cerchiamo di capire se proviamo le stesse emozioni. Credo che una spinta analoga muova il desiderio di ascoltare il grande repertorio del passato. E va bene, vorrei solo che questo si combinasse con la proposta di un grande pezzo non altrettanto conosciuto e che non reggerebbe da solo alle aspettative del pubblico. Una sinfonia di Beethoven con una bella pagina di Petrassi, per esempio, che darà un’emozione inattesa all’ascoltatore. Bisogna comunque dare tempo al filtro della storia, e noi come Accademia abbiamo a volte anche il dovere di scegliere, con le competenze che ci fanno distinguere il bello dal brutto. E su questo dobbiamo essere seri fino in fondo, anche quando può essere scomodo” (il convitato di pietra a questo punto è “l’evento”, parola che Biscardi vorrebbe cancellare dal suo vocabolario).
Se il concerto, la musica dal vivo, è il cuore dell’attività e dell’identità stessa di un’orchestra e di un coro, la riproduzione ne può conservare la memoria e ne allarga la platea. Oggi soprattutto per via digitale. “Internet ha avvicinato tutti, si sono annacquate le gerarchie. E’ un po’ scomparsa, fra l’altro, la figura del direttore mito, come un Karajan o un Abbado. Eppure il web ha i suoi vantaggi. Nel mio programma c’è un punto relativo a una piattaforma digitale per Santa Cecilia. Se su questa piattaforma proponessimo i nostri concerti, avremmo un pubblico di migliaia di persone in tutto il mondo. Certo, dovremo fare dei passaggi importanti: da un nuovo contratto per i professori d’orchestra e il coro a questioni di ordine tecnico da risolvere, ma ci stiamo lavorando. Questa piattaforma ci consentirebbe anche di commissionare lavori nuovi ai compositori d’oggi, penso soprattutto agli italiani perché sono quelli che conosco meglio: scrivono cose formidabili. Ci sarà anche qui il filtro della storia: di cento opere commissionate, poniamo, quante potrebbero rimanerne? Forse tre, ma è un numero importante. Il nostro compito è anche quello di lasciare una traccia, e non possiamo farlo che così”.