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Julio Iglesias, il gran seduttore
Così un españolito qualunque ha acceso il cuore del pubblico e delle signore. La nuova biografia e i conti impossibili: dei dischi venduti e delle donne conquistate
“Sono un pirata, sono un signore, un professionista nell’amore”, cantava Julio Iglesias nel 1977, durante la notte elettorale del 15 giugno. Una data storica. La Spagna voltava pagina. Tornava al voto dopo più di quarant’anni. E sembrava officiare una liturgia, apporre il sigillo democratico alla Transizione. Erano le prime elezioni politiche generali indette dopo la morte del Caudillo Francisco Franco nel novembre del ‘75. Dopo la fine della dittatura più duratura del XX secolo nell’Europa occidentale. Dopo la tragica cesura della Guerra civile iniziata nel luglio del 1936.
Lo spoglio delle schede cominciò di sera, a seggi chiusi. Con i tempi dilatati di un’èra non ancora digitale. La partecipazione era stata massiccia. Quasi l’ottanta per cento degli spagnoli aveva votato. La televisione di stato affrontava la maratona elettorale inframmezzando notizie e risultati del suffragio con ampi spazi di intrattenimento, musica e varietà.
Dagli schermi della Rtve si affacciava Julio Iglesias, tutto incannucciato in giacca, gilet e cravatta; pantaloni a zampa d’elefante e occhiali grandi come fari, come si usava allora e come si usa di nuovo adesso. Aveva 33 anni ed era già il sex symbol riconosciuto della hispanidad. Un decennio di canzoni, con testi più ricchi di zucchero che di spessore, lo avevano reso così famoso in Europa e in America da sorprendere perfino il baffuto presentatore della tv spagnola. Il quale in diretta confessava candido che non si sarebbe mai aspettato cotanto successo. Nemo propheta in patria, si sa.
Per l’occasione Iglesias cantava una melodia inedita, appena composta da Ramón Arcusa. Una canzone che lo accompagnò tutta la vita, identitaria già nel titolo: Soy un truhán, soy un señor. Il testo gli era stato cucito addosso come un abito sartoriale. Tanto che fu subito riversato in un album dal titolo autobiografico: A mis 33 años.
Nella notte che consacrava la “nuova” Spagna alla democrazia, Iglesias non si occupava mica di scelte elettorali. Tutt’altro. “Di politica sarete già stufi”, affermava rivolto agli spettatori. “Meglio la vita, meglio l’amore”. Fedele soltanto a se stesso. Al ruolo di grande seduttore che si era costruito con somma tenacia e altrettanto convincimento. “Sono un bastardo, sono un sognatore. Non vado a un appuntamento senza un fiore, ma non confondo il sesso con l’amore”, cantava. Da autentico macho ruspante. Certo, i tempi erano altri. Il razzolare maschile come galli nel pollaio era più tollerato all’epoca, almeno nei paesi latini d’Europa e d’America. In più la Spagna dell’immediato postfranchismo aveva ben altri problemi. Il paese si trovava a “transitare” – per usare la parola giusta – verso la postmodernità senza aver davvero attraversato la modernità. Non era ancora il tempo del cinema di Almodóvar, né della Movida sociologica e artistica di Madrid. Ma nelle piazze si cantava già la libertà ritrovata sulle note dei cantautori dell’impegno politico, molto fascinosi e sempre spettinati, come Paco Ibáñez, Joan Manuel Serrat, Víctor Manuel, Lluís Llach. Erano visti come modelli di resistenza antifranchista, nei modi e nelle forme della cultura. Artisti capaci di recuperare la grande tradizione poetica spagnola e di metterla in musica.
Nella notte che consacrava la “nuova” Spagna alla democrazia, disse: “Di politica sarete già stufi, meglio la vita, meglio l’amore”
Il tema non era nelle corde di Julio Iglesias. Lui era il figlio primogenito di un padre camisa vieja, cioè aderente al movimento della Falange ancora prima della nascita del franchismo. E di una madre religiosa e rassegnata a non avere voce in capitolo. Neppure sulle scelte di vita del marito, anche lui Julio di nome, come si usa in Spagna. Julio Iglesias padre faceva il ginecologo e coltivava un sincero interesse per le donne. Non sempre e non solo professionale. Ovviamente fu il primo esempio per il figlio Julio, nato a Madrid il 23 settembre del 1943. Il quale da adulto si dedicò ad aggiornare di continuo un’agenda rossa con i contatti femminili che avevano incrociato la sua vita, “o almeno il suo letto”. Sembra che una volta, preso da un impeto contabile, ne abbia dichiarato il numero: tremila. Chissà. Forse non faceva altro che alimentare la narrazione di se stesso. Del suo essere Don Juan, secondo una consolidata tradizione spagnola.
Gli Iglesias erano una famiglia del ceto medio. Il che significava – soprattutto nella Spagna degli anni Quaranta, affamata e ancora stremata dalla Guerra civile – tenere molto alle apparenze. Al vestito buono per le occasioni. A non avere mai un capello fuori posto. Il risultato fu Julio. Che da giovane sembrava più vecchio. E da vecchio è rimasto tale e quale. Inalterato, a parte qualche ritocchino chirurgico. Per sempre giovin signore, dedito ai piaceri della vita. Mai contemporaneo, Julio. Un tipo fin troppo pettinato, fin troppo abbronzato, i denti troppo bianchi, il sorriso stampato. Uno stile inattuale, a modo suo così ricercato da far intendere di non aver mai lasciato nulla al caso. Aveva un unico obiettivo, Julio: conquistare il pubblico e accendere il cuore delle signore. I criticoni dicono che ci sia riuscito soprattutto con quelle mature, avanti in anni e chili. Meritandosi a pieno titolo l’attributo di “sex symbol della menopausa”, copyright della rivista americana Time.
Mai contemporaneo, fin troppo pettinato, fin troppo abbronzato. L’attributo di “sex symbol della menopausa”, copyright del Time
Per tornare alla notte elettorale del ‘77, a quel documento video che è lo specchio di un’epoca, Julio interpretava il suo motto: yo no canto, encanto. “Con più autostima che pudore”, la sua voce vibrava intorno alle “molte donne avute”. Carezzava suadente sia quelle che l’avevano “capito”, sia quelle che l’avevano “in malafede ferito”. Povere loro, si intende.
Fenomenologia di Julio Iglesias, 81 anni, caballero español per eccellenza. “Icona della seduzione, del successo, della ricchezza, della fama su scala globale, come nessun altro spagnolo del nostro tempo, esclusi Dalí e Picasso”, scrive Ignacio Peyró in una biografia pubblicata in Spagna un mese fa da Libros del Asteroide e già arrivata in vetta alle classifiche, alla seconda edizione, alle traduzioni in corso in Portogallo, Francia e Italia. El español que enamoró al mundo. Una vida de Julio Iglesias, questo il titolo del libro, è un ritratto che si legge come un romanzo. Scritto con la grazia e la levità della buona letteratura. Alla maniera di Italo Calvino quando raccomandava di “prendere la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità”. O di Paul Valéry che ambiva a essere “leggero come l’uccello che vola e non come la piuma che cade”.
Peyró, che è anche editorialista del quotidiano El País e della rete radiofonica Ser, da giornalista scava dentro il fenomeno Iglesias. Calibra parole e immagini come se scattasse istantanee della vita “straordinaria” di Julio. Inanella aneddoti con molto humour e nessun sarcasmo. Racconta episodi significativi o talvolta poco conosciuti come il sequestro nel 1981 da parte dei terroristi baschi dell’Eta di Julio Iglesias padre, il ginecologo. Così, la biografia di Julio si intreccia di continuo con la storia della Spagna degli ultimi decenni. Una narrazione corale della trasformazione del paese attraverso le vicende personali di Iglesias. Ecco, per esempio il primo, formidabile successo nel 1968 con la melodia La vida sigue igual al Festival di Benidorm, creato dal regime franchista nel 1959 per promuovere la canzone nazional popolare, sul modello italiano di Sanremo. Festival che, non a caso, a metà degli anni Settanta cominciò a languire. Per chiudere definitivamente i battenti, dopo alterne vicende di tentativi di rilancio, nel 2006. Oppure la legge sul divorzio del 1981, approvata quando Julio Iglesias si era già separato dalla prima moglie e non si era ancora sposato con la seconda. Per un totale di otto figli legittimi, più uno che chiede da anni il riconoscimento della paternità senza riuscirci. Chissà.
Peyró racconta il suo paese dal di dentro. Attraverso uno dei suoi figli più famosi. Mette a nudo Iglesias. Con i suoi tic, le sue fisime da star planetaria, il lato migliore da inquadrare, il maquillage eccessivo, l’edonismo come etica ed estetica, le infinite contraddizioni della sua soap opera con sfondi tropicali, vestiti bianchi e viso bronzeo, un lusso così esibito da risultare irrimediabilmente kitsch.
Non perdona nulla, Peyró, a Julio Iglesias. L’impero immobiliare, le speculazioni, i paradisi fiscali, le società off shore. Le zone d’ombra che nel 2021 lo hanno fatto entrare di diritto nei Pandora Papers, la gigantesca inchiesta giornalistica intorno alle élite globali e ai traffici finanziari nelle terre di mezzo della legalità di ricchi e potenti, inclusi capi di stato e di governo.
Il libro del giornalista Ignacio Peyró racconta il suo paese dal di dentro. A Iglesias non perdona nulla, ma ne evidenzia il tratto umano
Colpisce però il tratto umano con cui Peyró – anche lui nato a Madrid, ma nel 1980 – narra la vita di Julio Iglesias, in fin dei conti “uno di noi” e non il prodotto scomodo dell’ultima tappa dell’èra di Franco. Forse perché Iglesias è l’uomo che più ha rappresentato la Spagna contemporanea senza che nessuno in Spagna avesse coscienza di essere rappresentato da lui. Forse perché oggi narrare la vicenda umana e professionale di un latin lover è come scrivere un trattato di archeologia sociale, evocare teorie prodotte da culture umane ormai scomparse. Forse perché Iglesias era diventato cantante per caso. Dopo essere stato un calciatore mancato. Julio aveva giocato come portiere nella giovanile del Real Madrid fino al 1963, quando – nel giorno del suo ventesimo compleanno – aveva avuto un terribile incidente d’auto di ritorno da una scorribanda con amici. La convalescenza e un successivo tumore che lo costrinse a letto per mesi convinsero Julio a prendere la chitarra in mano. Era nato un crooner sulle ceneri di un calciatore.
In questo senso il libro El español que enamoró al mundo è anche una meditazione sulla sorte. E soprattutto sul successo. Su quanto possa essere casuale e perfino incomprensibile. Sul perché un españolito qualunque, senza particolare talento musicale, senza una voce particolare, senza la copertura di ideologie evidenti, senza l’influenza di Internet e dei social, sia diventato un musicista, compositore e cantante da Guinness dei primati. Anzi. Sia diventato “il monumento” della musica melodica latina. Quella musica sentimentale da ballo lento, da confidenze cheek to cheek, che proprio lui ha sdoganato in versione spagnola. Julio Iglesias ha cantato in 14 lingue diverse, compreso il giapponese e il tagalog delle Filippine, in migliaia di concerti davanti a milioni di aficionados sparsi in cinque continenti. Si è aggiudicato 2.600 dischi di platino o d’oro per le vendite record di 80 album. Oltre 300 milioni le copie vendute, in un’epoca in cui per ascoltare la musica bisognava comprarla, dettaglio non secondario.
Instancabile nel lavoro, con un fiuto straordinario per l’autopromozione e per gli affari, con amicizie potentissime, Julio Iglesias è riuscito ad accumulare un patrimonio calcolato in 800 milioni di euro, secondo la rivista statunitense Forbes, la più autorevole nello stilare classifiche su business, miliardari e dintorni. “Un caso più unico che raro – scrive Peyró – in cui uno annuncia da ragazzo di volere avere un successo universale e ci riesce”. Continuando a far arricciare il naso ai critici musicali togati. “Senza che nessuna accademia, nessuna cattedra di sociologia o di semiologia si sia mai presa la briga di indagare sul fenomeno”, sottolinea Peyró.
Julio Iglesias, ormai ultraottantenne, vive da anni lontano dai riflettori nel suo personalissimo triangolo tropicale, composto da Indian Creek, l’isola blindata e abitata dai più ricchi del pianeta a pochi chilometri dal centro finanziario di Miami, Punta Cana nella Repubblica Dominicana e le Bahamas. Annuncia memorie di cui ancora non si ha notizia di pubblicazione. Non appare in pubblico e non rilascia interviste. Neppure a Ignacio Peyró che gliel’ha chiesta formalmente due volte e ha registrato il suo silenzio per due volte. “Con sollievo”, dice. Dato che “nessun uomo di potere si presta a rispondere a ciò che chiedi, ma utilizza l’occasione per far sapere ciò che vuole”.
Annuncia memorie di cui ancora non si ha notizia, non rilascia interviste né appare in pubblico. Ma seduce anche la generazione Z e Netflix
Eppure el encanto di Julio Iglesias non ha fine. “Seduce la generazione Z e Netflix”, intitolava il Times giorni fa. Con riferimento alla serie tv attualmente in produzione sulla vita dell’artista spagnolo, il primo crooner non anglofono a entrare nei mercati del Nord America e dell’Asia. E con riferimento alla prima generazione (i nati tra il 1995 e il 2005) interamente digitale che continua ad appassionarsi a Iglesias e produce meme su di lui, sulle sue avventure e sulle sue manie, come l’abitudine di portare cibi freschi in valigia da un paese all’altro delle sue residenze americane.
L’ultima volta, un anno fa, Julio Iglesias è stato fermato alla dogana di Santo Domingo con un carico di 42 chili di frutta e verdura imbarcato alle Bahamas: rucola, fragole, funghi, pomodori, spinaci, sedano, fagioli, barbabietole e lamponi. Immediato sui social un diluvio di meme con “la valigia sull’etto” in rapporto al peso del bagaglio sequestrato a Iglesias, invece di “la valigia sul letto” della prima strofa di Se mi lasci non vale, la canzone pop composta in italiano (testo di Gianni Belfiore, musica di Luciano Rossi) e cantata da Julio Iglesias nel 1976.
Ma per noi che, giusto nel ‘76 partivamo per il primo “lungo viaggio” in Spagna, quella “valigia sul letto” è memoria. E’ colonna sonora di ciò che fummo e, forse, ancora siamo.