il foglio del weekend
Max Casacci che fa cantare il vino
"Through the Grapevine, in Franciacorta", il nuovo disco del fondatore dei Subsonica, sfida dazi e confini e brinda all'arte di trasformare il mondo in una sinfonia. Di natura e tecnologia, Pistoletto e Sorrentino, Intelligenza artificiale, cinema e memorie. Intervista
C’è un disco da regalare a Donald Trump. Mentre le cantine italiane guardano con sgomento ai nuovi dazi imposti dall’Amministrazione americana, con molti produttori che già prima della mazzata lamentavano il calo delle esportazioni e bottiglie bloccate nei porti, un’onda sonora inaspettata emerge dalle botti di Franciacorta. Max Casacci, cofondatore dei Subsonica e maestro nell’arte di trasformare i “rumori” in musica, ha deciso di restituire al vino un nuovo linguaggio: quello del suono. E’ appena uscito Through the Grapevine, in Franciacorta (Earthphonia III), un EP realizzato senza strumenti musicali ma con le voci del vino e della sua lavorazione, di cui l’alchimista Casacci distilla l’essenza. Non un esercizio di stile, ma una narrazione sonora in grado di restituire la musica delle vigne, il respiro buio delle botti e il fremito della fermentazione, captato con microfoni ultrasensibili. “Mosto nella pressa / Grappoli che cadono su altri grappoli”, come recita in un brano una voce femminile: l'unica, brevissima, presenza verbale del disco. Casacci non ha semplicemente registrato un ambiente sonoro: ha cesellato, modulato, riscritto la materia acustica fino a costruire un nuovo linguaggio, un'inedita musica del vino. Un balsamo per i nostri subbugli.
“Ho provato a ricostruire delle storie sonore”, dice Casacci al Foglio, “e ho passato mesi a registrare, affinare e mixare”. Come un vignaiolo. “Più come un liutaio: costruendo strumenti musicali immaginari a partire da suoni reali”. L’idea nasce durante il Festival della Franciacorta, tra le mura delle Cantine Bersi Serlini. Un piemontese che celebra il vino in Franciacorta: gli toglieranno il passaporto... “Ero stato invitato per una sonorizzazione live da Chiara Bersi Serlini, che ha collaborato con artisti visionari come Aphex Twin e Bill Viola, una persona che ama la bellezza e non pone limiti alla sperimentazione. Avevo in mente di usare i rumori provenienti dagli oggetti che gli ospiti avevano intorno, in quel luogo oscuro dove avvengono magiche e meravigliose trasformazioni, ma non sapevo quale strada avrei percorso. E’ stato indispensabile il confronto con Chiara: è stato subito evidente che volevamo entrambi creare qualcosa di unico e vibrante”.
L’EP si sviluppa in tre tracce: Cantine, il respiro profondo degli ambienti di affinamento, una meditazione sonora sulla maturazione del vino; Trattore (Vendemmia cassa dritta), una corsa febbrile nel caos della raccolta; e Cisterne, dove la dimensione industriale della produzione si trasforma in un groove magnetico, un’ipnotica danza meccanica tra pareti d’acciaio. “Nel primo brano uso il rumore dell’esplosione delle bollicine, registrate con un microfono a condensatore infilato nel calice”, spiega Casacci. “Il mio dizionario di vignaiolo è migliorato: ora so che a diverse croccantezze, così si dice, corrispondono suoni diversi. Quel materiale è qualcosa che quasi attiene al field recording. Oppure ho usato un suono intimamente vinicolo percepito ascoltando il travaso del mosto: un accordo liquido, di settima aumentata, che ho provato a spostare di tonalità. Ed eccole lì: le onde del mosto! Il dolce naufragare del gaudente. Se la frizzantezza delle bolle l’avevo cercata subito, qui il suono si è affacciato e si è fatto scoprire: è la radice, l’anima del vino, che rivela una sua voce e una sua identità”.
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Natura, tecnologia e Pistoletto
Tuttavia, anche l’Italia ha il suo Make Great Again. E, parlando di agricoltura, il sogno è spesso quello di un ritorno al naturale, come fosse esistita un’età dell’oro dove la terra donava i suoi frutti senza chiedere nulla in cambio. La verità però è un’altra: il vino non nasce solamente dal sole e dalla pioggia, ma anche dal sudore e dal metallo: servono mani e lavoro e macchinari. E ogni bottiglia è la partitura di uno sforzo collettivo. Occhio: quella di Casacci non è una sinfonia della natura, ma della trasformazione. Il suono degli insetti nella vigna è solo il punto di partenza. “Nel brano Trattore il rombo di una macchina agricola - che suona in Do! - ci fa ballare sui suoni della vendemmia in chiave techno”, sottolinea l’autore. Protagonista del disco è infatti anche il clangore, il ruggito delle presse, il battito incessante delle cisterne d’acciaio. Le bottiglie che scivolano sui nastri trasportatori, il turbinare del mosto nei tini (“l’anime a rallegrar”) , il colpo secco del tappo che esplode. Tutti questi suoni - soprattutto quelli tecnici e tecnologici - diventano musica nelle mani di Casacci. “Persino la tutela dell’ambiente passa per la tecnologia”, prosegue lui. “Così come la mia musica. Se non fossi in grado di riascoltare sul laptop i suoni che registro e scoprire che sono già intonati, non sarei poi in grado di tradurli in musica. La tecnologia non va nascosta né mascherata da Asmr, tra le cicale e le bollicine. Il progetto Earthphonia non è un progetto New-Age”.
Questo concetto di fusione tra natura e tecnologia ha molto a che fare con l’artista Michelangelo Pistoletto: una figura chiave alla base di tutta l’esperienza Earthphonia, per via dell’impianto teorico da lui disegnato attorno al cosiddetto Terzo Paradiso, lì dove l’uomo ritrova finalmente il suo equilibrio con la natura e lo fa attraverso la tecnologia. Ma per arrivare a Pistoletto forse occorre un minimo riepilogo discografico, Subsonica a parte. Così intanto il vino riposa.
Earthphonia è al suo terzo “episodio”: nel primo Casacci ha lavorato sui rumori della Terra, nel secondo su quelli dello spazio urbano. Ma il suo interesse ai suoni “concreti” parte da lontano. Nel 2011, nell’ambito della Biennale d’Arte di Venezia, ha firmato insieme a Daniele Mana (Vaghe Stelle), un’opera sonora e un album con i suoni del vetro, Glasstress. “E’ la trasposizione sonora di una fornace di Murano: dal soffio del forno a più di mille gradi al rumore della fiamma ossidrica o della frantumazione dei vetri di scarto”, ricorda Casacci, che poi ha realizzato anche The City, album nel quale i rumori di Torino – dei suoi bar e mezzi pubblici, di Porta Palazzo o del derby – diventano il ritmo a sostegno degli strumenti di jazzisti del calibro di Enrico Rava, così come del rap di Ensi o della melodiosa Petra Magoni. In questo percorso, Casacci a un certo punto è con Luca Saini (Hatisuara) a Malta – sembra uno che viaggia parecchio, beato lui – e sulla scogliera di Gozo incappano nelle “pietre sonore”, rocce che si rivelano magicamente intonate tra loro. Non possono far altro che “suonarle”. A quel punto Pistoletto, ispirato dal video youtube di quei due matti che suonano delle rocce dipinti nel blu, chiede a Casacci di creare qualcosa di simile da tenere all’interno della sua Cittadellarte. Ed eccoci tornati a noi; ora il vino si può assaggiare.
Intelligenza Emozionale
Come evolverà questo lavoro di esplorazione dei suoni, lo sentiremo. Intanto ci sono parecchie altre questioni in ballo. Per gli appassionati dei Subsonica: Max, Samuel, Boosta, Ninja e Vicio stanno scrivendo il nuovo disco, il decimo in studio. “Siamo a metà strada, non scendiamo a compromessi. Posto che nessuno ce li sta chiedendo”, ride Casacci. L’album uscirà nel prossimo anno, 2026, e Casacci racconta che “verrà impastato” con le esperienze di un bellissimo viaggio che il gruppo ha fatto a Essaouria, in Marocco, capitale (JimiHendrixiana) della musica gnawa. “Una settimana sola ma alla radice, a succhiarne la parte musicale”. A pensarci oggi, all’epoca di ChatGpt, in fondo i Subsonica erano già quelli di “Microchip emozionale” e “Realtà Aumentata”. Chissà che cosa ne pensano dell’Intelligenza Artificiale. “La prima parola che mi viene in mente è: opportunità. Se la usiamo solo come una protesi non farà bene all’esperienza artistica, ma se la usiamo per creare nuovi linguaggi, allora sì”, dice Casacci. “Probabilmente l’AI, anche nella musica, farà scomparire le attività ‘di copincolla’, che possono essere fatte meglio da chi ha più potenza di calcolo e che non sono esperienza artistica. Viceversa l’AI ci costringerà, prima o poi, a un reale momento di competizione. Competizione virtuosa, che spingerà a rivalutare uno scomparso approccio umanistico. A riscoprire per esempio la serendipità, la curiosità nei confronti dei fatti e dell’esperienza del mondo e dell’arte. Solo la sensibilità umana crea ponti e legami organici tra ambiti apparentemente slegati. E li mette in relazione con lo spirito del tempo, con gli aspetti controversi dell’animo umano, con le nostre paure. Credo che l’AI non potrà produrre musica interessante finché non uscirà dall’emulazione del passato: ma pensa a cosa succederebbe se cominciasse a comporre musica rivolta ad altra AI...”. Creare ponti e legami: bello! Ma partivamo dai dazi: non sembra il momento ideale per un sogno del genere. “Il mondo cambia a una velocità vertiginosa”, dice Casacci. “Tre anni di guerra in Ucraina, oltre ai candidati filorussi in Romania o alle braccia tese dei giganti della tecnologia, avrebbero dovuto farcelo capire. Mentre noi siamo in ritardo nel formattare i nostri anticorpi. Chi ipnotizzato nelle proprie percezioni, chi preso a inneggiare alla pace in modo astratto”. Amen. Ma non facciamoci prendere dalla sbornia triste, che c’è ancora musica. E cinema.
Pronto, Max? Sono Paolo
Notiziola di spettacolo di pochi giorni fa. “Ansa/lombardia/notizie - Paolo Sorrentino ha affidato a Max Casacci la creazione del tessuto sonoro de La dolce attesa, il progetto-installazione del regista Premio Oscar per il Salone del Mobile.Milano 2025”. Mica male. “Mentre ero in Marocco coi Subsonica, ho ricevuto un messaggio di Sorrentino che chiedeva di incontrarci a Torino. Si era incuriosito con Eartphonia. ‘Amerei ascoltare qualcosa di inedito. Per ispirarmi’, ha scritto. L’ho trovato bellissimo, è un regista che amo e una persona che volevo conoscere meglio”, racconta Casacci (con entusiasmo). “Sono andato a cercare tracce inedite e ho riscoperto un bagaglio di suoni pronto da utilizzare. Mi sono messo a scrivere. Gli ho mandato dei brani e lui mi ha proposto di occuparmi della parte musicale dell’installazione, non so se prevista in origine. Quando ho inviato a Sorrentino le tracce audio ho aggiunto un discalimer enorme: ‘Finché non trovi quello che ti piace lo facciamo e rifacciamo, tranquillo’. Invece è stata buona la prima”, aggiunge (con sollievo).
Sempre dall’Ansa: “L’installazione La dolce attesa sarà realizzata all’ingresso dei padiglioni 22-24. E, se l’attesa è uno spazio sospeso, il suono deve saperla colmare mentre ne racconta il ritmo”. Ma qual è il ritmo dell’attesa? “Normalmente i luoghi dell’attesa sono sgradevoli, brutti, disadorni”, dice Casacci. “Penso alla sala d’attesa di uno studio medico: ti lascia lì passivo e solo, tra le tue ansie. Invece Sorrentino voleva rileggere lo spazio dell’attesa in chiave positiva, come un luogo dove aspettare in modo attivo. Ha usato il termine ‘ricerca di bellezza’. Ma non riusciva a immaginare una musica in grado di sintonizzarsi con la sua visione e con la produzione scenografica di Margherita Palli. Alla fine il ritmo dell’attesa suona come un impasto del respiro del mare e delle foreste e del vento, mossi armoniosamente da un battito cardiaco. Detta così può sembrare una cosa rilassante da sala massaggio, ma giuro che è più complessa, pensata per essere generativa”, dice Casacci, e si sente che sorride. Del resto il cinema è nel suo Dna.
E’ tutto cinema, cinema, cinema
“Ho iniziato andando con mio padre a recuperare vecchi registratori Rai dalle parti di Moncalieri”, ricorda Casacci. Suò papà Ferruccio, dice, “apparteneva a una generazione di uomini che sapevano fare qualsiasi cosa. Da giovanissimo aveva fatto un corso a Radio Elettra ed era stato a bottega da un fotografo. Chiamato alla leva a Roma decise di fare il pompiere, nel periodo in cui a Cinecittà reclutavano giovani fisicati come comparse per i peplum, quei film in costume tipo Maciste. Servivano per scene di massa dove, che so, marinai greci scagliavano massi di carta pesta sui nemici. Per lui fu un luogo di meraviglia: il connubio perfetto fra la sua passione per il teatro, per la musica e per la tecnologia. Più avanti si licenziò dalla Stipel, l’azienda dei telefoni dove lavorava, e, senza budget ma con qualche amico, tirò su uno studio cinematografico. Io ci ho lavorato, si fa per dire: svuotavo i posaceneri, montavo le lampade, e quando mancava un commento musicale venivo promosso a maestro! A 25 anni ho dovuto arrangiarmi a suonare un liuto, per un film ambientato nel Seicento. Ma la dimensione per la quale mio papà viene ricordato con più affetto da chi il cinema poi l’ha fatto, anche ad alti livelli, è quella di Gran Mogol che insegnava ai ragazzi il mestiere e li instradava, in un’epoca nella quale non esistevano scuole di cinema”. Proprio nella sala doppiaggi del padre, Massimiliano “Max” Casacci assembla un piccolo studio di registrazione, che in seguito diventerà Casasonica, punto di riferimento per la musica indipendente, torinese e non, degli Anni Novanta. Poi Max entra a far parte degli Africa Unite. E poi nascono i Subsonica, che diventano una delle band più influenti in Italia negli anni Duemila. E che, tanto per restare al cinema, nel 2024 vincono il David di Donatello per la colonna sonora del film Adagio di Stefano Sollima.
Del resto la loro Torino è stata definita “Città del Cinema” nel 2020. Per molti è anche la “capitale del jazz” italiano. E oggi forse il più bel festival di musica internazionale in Italia è il torinese Club To Club (C2C), che ha perso da poco Sergio Ricciardone, fondatore e direttore artistico. Casacci ci tiene a citarlo, così come sottolinea che Torino oggi è anche la città del festival Jazz is dead! e di Kappa FuturFestival. Ancora tutto si tiene, fra jazz ed elettronica. “E’ una città irrequieta, dove si sperimenta sempre moltissimo. Sarà un luogo comune, ma è vero. Però spesso non è capace di restituirsi, neanche agli stessi torinesi”. racconta Casacci, che offre uno spaccato della nuova città. Nessun passatismo, anzi: pensa che la mentalità che ha fatto diventare interessante molto di quello che sobbolliva nella musica e nell’arte degli anni Novanta sia ancora lì. “Ma prima c’erano i luoghi, oggi c’è la tecnologia. Rispetto al passato chi fa questo genere di attività – visual artist, musicisti, creativi - lavora su scala globale e quindi non sente l’esigenza di dialogare con quello che ha intorno. Tanto più se intorno hai un paese gerontocratico mentre tu da casa puoi arrivare al mondo. Il rischio è che manchi una restituzione. E che i nuovi fenomeni artistici non diventino cultura condivisa”. Insomma, ancora una volta: servono ponti. Mentre speriamo di incontrarci fuori da questa claustrofobica “discoteca labirinto” globale, consoliamoci pensando che se le bottiglie non possono più attraversare liberamente l’oceano, almeno il loro suono può ancora farlo: anche grazie a un manifesto musicale che, nel suo meraviglioso piccolo, sfida i confini e brinda all’arte di trasformare il mondo in una sinfonia. Di bollicine.