
Niccolò Contessa, 2014 ( Foto Getty)
l'album
Se le cose vanno male non resta che ascoltare i Cani
Niccolò Contessa è ormai un intellettuale pessimista, apparentemente scettico, ma forse assai partecipe del destino che accomuna la tribù di provenienza. E nel suo “Post Mortem”, ogni brano sembra necessario, autonomo e capace di fotografare la quotidianità alla perfezione
Sono tornati i Cani. Intesi come la band di culto romana, non i migliori amici dell’uomo. Anzi, nella fattispecie, qui si parla del solo Niccolò Contessa, dal momento che sotto quella sigla è lui ad agire e a disporre, salvo farsi aiutare da chi gli serve. E’ una notizia a sorpresa, perché “Post Mortem”, l’album che segna questo ritorno, è uscito a sorpresa, senza annunci e senza anticipazioni. E già da un pezzo sembrava che Contessa stesse camminando su strade diverse e ancor più solitarie, tipo la produzione conto terzi, o le colonne sonore, musica per immagini. Invece no, ci spedisce dritto questo album ed è un piacere farci i conti, tanto più visto il momento e i suoni in circolo. Prima però bisogna ricamarci sopra, perché quella di Niccolò e della sua musica con lo pseudonimo “Cani” è una vicenda, soprattutto psicologica, incisiva. E non parliamo tanto di lui, che è un giovane uomo che ha sempre badato di non rivelarsi alla curiosità degli ascoltatori, tenendo distinto il prodotto dalla propria natura e dalla sua biografia (sempre che sia plausibile…), ma dell’effetto che le sue canzoni hanno suscitato in un certo tipo di pubblico. “Theme from the cameretta” si chiamava il pezzo d’apertura de “Il sorprendente album d’esordio de I Cani”, che era quello che diceva il titolo e molto di più, all’altezza dell’anno 2011: la rappresentazione ispirata dell’estetica della grande insicurezza, nevrotica, autoreferenziale, ironica, venata di aggressività, autocompiacimento e subitanee fragilità. Un saggio sulla condizione filiale, fotografata nella metropoli eterna e immutabile, consumabile dagli adulti alla voce “i nostri figli. Alcune verità” e dai coetanei che vedevano di buon occhio l’apatico, intelligente cantante che si presentava con un sacchetto di carta sulla testa, con due buchi per gli occhi e la strafottenza di sottintendere: non mi va di dirvi chi sono, dal momento che i problemi sono altri.
Molti anni dopo, abbiamo l’illusione di averlo imparato minimamente a capire, il signor Contessa, che nel frattempo ci ha recapitato almeno un altro album memorabile come “Aurora” (2016), e in tempi più recenti si è reso responsabile di una promettente collaborazione con i Baustelle, prontamente interrotta. Abbiamo intuito che la dote che Niccolò ha avuto in dono è una cosa rara e fortunata per chi ne dispone ed è quella di veder caricare di significati, fino al limite dell’ansia, qualsiasi cosa nuova proponga, un po’ come succede, per dire, con Nanni Moretti. E lui, giustamente, ci gioca con tutta questa sudditanza, e perciò, una volta completato “Post Mortem”, lo rilascia così, senza fanfare, all’insegna dell’“io l’ho fatto, vedete voi l’uso a cui destinarlo” e allora, appunto, una certa ansietta sale, quella d’essere all’altezza di colui che ha dimostrato d’essere uno stringatissimo ma efficace filosofo della condizione umana intesa in certi parametri: giovinezza che fugge via, vizi e vezzi del benessere, confusione da insoddisfazione, ipersensibilità, vocazione a sbagliare, arte del ripensamento, pentimento facile, parecchio abbandono.
Ed eccoci al disco di quest’anno, che si apre con un paio di pezzi-manifesto: “Io”, uno scarno carnet di rivendicazioni, che alla fine sembrano contorcersi fino a rivolgersi contro la stessa voce cantante (“Chi mi aveva convinto di essere quello che non sono / Chi mi giudica sempre senza prima vedere / Chi mi ha prima esaltato e poi mi ha tradito / Io”); e “Buco Nero”, cronaca elettronica d’errori infelici e indotti che c’ingoiano nella quotidianità, come le terrorizzanti cavità spaziali (“Simone è contento perché gli hanno pubblicato l’articolo / Mentre Arianna si lamenta che è come andare al patibolo / E io mi sento vagamente ridicolo / Perché mi domando cosa c’è davvero sotto il vestito? / Un buco”). Basta questo a stabilire la temperatura dell’opera: le cose vanno male e le canzoni perciò devono essere gli antidoti. Niccolò, diventato grande, è un intellettuale pessimista, apparentemente scettico, ma forse assai partecipe del destino che accomuna la tribù di provenienza, esito di una formazione borghese fuori tempo massimo.
L’album, senza sbavature, pezzo dopo pezzo decolla con lucidità e passione: ogni brano sembra necessario e autonomo, ma il quadro si compone vivido e i suoi colori sono riconoscibili all’occhio allenato degli habitué di queste temperature sensibili. Musicalmente le scelte sono minimali e ruggenti, artificiali e scandite, un carroponte massiccio su cui Niccolò può liberamente sospirare e discettare, chiamando a raccolta, senza apparentemente muovere un ciglio, gli scontenti irrequieti che rimbalzano per la città (“Nella parte del mondo in cui sono nato” come la definisce Contessa, nel brano migliore del disco), di solito distratti dalle occupazioni, però non abbastanza da non cogliere il richiamo dell’identità: frantumarsi insieme, in fondo, è sempre stato una via di sopravvivenza. Se poi si ha la fortuna d’imbattersi in un oggetto culturale come questo, capace di fotografare alla perfezione lo stato delle cose, il sollievo diventa palpabile. In questa direzione, “Post Mortem” è un album destinato a contare e a restare.