SWEENEY TODD – IL DIABOLICO BARBIERE DI FLEET STREET

Mariarosa Mancuso

    Se non sopportate la vista del sangue, alla larga. Vischioso e lucente come il rubino (su scene sfumate dal grigio chiaro al grigio scuro) schizza dalle arterie, inonda il pavimento, fa da lubrificante agli ingranaggi, riempie le canalette che scaricano nelle fogne. Non siamo neanche ai titoli di testa. Poi arriva un veliero, che anche l'olandese volante e i suoi marinai fantasma rimanderebbero al cantiere, troppo mortifero. Ne scende Johnny Depp con i capelli arruffati e la mèche bianca – stesso coiffeur della moglie di Frankenstein nel film di James Whale. Avanza verso una bottega che vende pasticci di carne, immangiabili e impestati da insetti schifosi, sale al piano di sopra, sfodera un rasoio a mano libera, lo usa per specchiarsi. Gorgheggiando la più meravigliosa e dissonante partitura mai ascoltata in un film, minaccia tremenda vendetta. Parole e note sono di Stephen Sondheim, campione del teatro musicale americano. Nel 1979 decise di adattare una storiaccia vittoriana, pubblicata da un editore specializzato in finti Dickens (intitolati, per depistare e non rischiare condanne, con refusi come “Oliver Twiss”). Il barbiere serial killer metteva insieme cronache giudiziarie e leggende metropolitane, ambientate in una metropoli puzzolente, miserabile e spietata con i suoi abitanti. Forse non al punto da inghiottirli, trasformandoli in pasticcini salati come farà miss Lowett, che finalmente trova il modo per rifornirsi di carne. Di certo i bassifondi erano luoghi poco raccomandabili, per l'accumulo di rifiuti, umani o animali. Gli spazzini ripescavano cadaveri dal Tamigi (senza mai nominarli, come accade nel primo capitolo di “Il nostro comune amico”). Dopo “La fabbrica di cioccolato”, Tim Burton rifà il venerando Grand Guignol, e regala a Sacha Baron Cohen una bella parte da barbiere ciarlatano. Una sola scena festosa, ambientata a Brighton: Depp in costume da bagno a righe carcerarie, Helena Bonham Carter che immagina le loro vacanze insieme. Sciaguratamente l'effetto musical evitato dall'originale – più opera lirica che film dove gli attori si mettono di tre quarti e cantano - viene reintrodotto dal doppiaggio italiano. Che sottotitola quando cantano, traduce quando parlano (chissenefrega se il vocione del doppiatore è diversissimo), fa scempio dei duetti, inframmezzati da parolette come “certo” e “sì”, pronunciati in un'altra lingua.