SERBIS (Cannes, concorso)

Mariarosa Mancuso

    Consigli a un giovane regista, di cinematografia appartata, che voglia un posticino in concorso a Cannes. Bastano due cose: un cinemino, con proiettore rumoroso e possibilmente sguarnito di clienti, e un pompino inquadrato a schermo intero. Combinati, tirano la volata al filippino Brillante Mendoza. Il pidocchietto, dalle pareti scrostate e con i cessi intasati, fornisce quel tocco di metadiscorso e di autoreferenzialità che sulla Croisette sempre si porta. Il pompino – ovviamente Artistico e non Gratuito – è merce ancor più richiesta da un festival che voglia sollazzare il critico-di-tendenza, sempre pronto a dibattere la delicata faccenda con i colleghi beceri. Qui, per amor di completezza, andrebbe discusso anche lo statuto – sublime poesia o inutile disgusto? – del gigantesco foruncolo che campeggia sul culo di un giovanotto. Viene fatto scoppiare (con l'aiuto di una bottiglia) prima della fine del film: non il classico “The End”, ma la pellicola che prende fuoco nel proiettore. “Serbis” sta per “servizio” o meglio “servizietto”, dato il tipo di prestazioni fornite dai ragazzetti in sala agli spettatori, nelle varie tipologie da checca a supermacho. Rumore assordante e scale salite o scese in tempo reale completano il quadro d'autore.