HELLBOY – THE GOLDEN ARMY

Mariarosa Mancuso

    Poiché il meccanismo non era rotto, e il primo film uno spasso, non c'era bisogno di aggiustarlo con un ricco assortimento di creature fantastiche che il messicano Guillermo del Toro ha in parte riciclato dai bozzetti inutilizzati per “Il labirinto del fauno”. Tra le new entries, una genìa particolarmente disgustosa di Fatine dei Denti, che rende superflua ogni forma di seppellimento o cremazione: le vediamo all'opera durante un'asta, lo spettacolo dissuade dall'acquisto di antichi cimeli. Qualcosa, negli uomini con la testa di legno o con uno sgorbio parlante attaccato al petto (e nella battuta “non sono un bambino, sono un tumore”), fa a pugni con l'ironia del fumetto disegnato da Mike Mignola. Bastava il meraviglioso Hellboy, diavoletto scappato dall'inferno per una fatale distrazione dei nazisti durante un rito magico. Cresciuto da uno scienziato che lo ha reso dipendente dalle barrette di cioccolato (alla birra è arrivato da solo), ora lavora per un fantomatico Istituto per la Ricerca e difesa del Paranormale inaugurato dal presidente Roosevelt, e per vanità si lima le corna tutte le mattine. Bastavano i suoi aiutanti: l'anfibio dandy Abe Sapien, che riconosce i versi di Tennyson appena li sente recitare da una bella fanciulla con le vene in vista sotto la pelle diafana, e la deliziosa Liz Sherman, che arrabbiata scatena incendi: spesso e volentieri, quando il diabolico fidanzato lascia i calzini sparsi per casa. A loro si aggiunge Johann Kraus, ectoplasma tedesco in tuta da palombaro. Non c'era bisogno di un'armata dormiente, risuscitata dalla rottura della tregua tra umani e creature soprannaturali, furiosi perché nei boschi e nei prati di loro uso esclusivo sorgono parcheggi e centri commerciali. La moltiplicazione dei cattivi trasforma la storia del diavolo pop in un fantasy, con obbligatorio scempio di Manhattan a opera di una pianta fronzuta in via di estinzione, quindi particolarmente aggressiva. Nella scena più spettacolare, Hellboy guerreggia con un neonato in collo. Se proprio deve usare entrambe le braccia – una è di pietra, intonata al marmoreo torace rossiccio che richiede quattro ore di trucco ogni mattina – appende il fagottino alla coda o lo deposita tra le lettere al neon di un'insegna. Poi torna a sbronzarsi, rimbeccando i salutisti: “Il mio corpo è un tempio? Ne farò un parco giochi”.