IL DIVO (concorso)

Mariarosa Mancuso

    Piacerebbe a Repubblica se davvero Cannes fosse sotto choc per “Il divo” (l'applauso è stato tiepido, niente a che vedere con lo scroscio alla fine del “Che” di Steven Soderbergh, se non altro per grazia ricevuta delle quattro ore trascorse). Vorrebbe dire che Giuseppe D'Avanzo ha un futuro come consulente alla sceneggiatura. La scena che tra tutte abbiamo preferito vede Eugenio Scalfari di fronte a Giulio Andreotti, mentre da integerrimo giornalista gli elenca tutti i “si dice”, chiedendogli ogni volta “è un caso?”. E via con Calvi, Sindona, Picciotta, Pecorelli, Dalla Chiesa, Ambrosoli, Falcone, Moro. Ribatte il divo Giulio: “E' un caso che io abbia contribuito a tenere in vita il suo giornale, con l'aiuto di Ciarrapico, cosa che consente a lei di venire qui per rivolgermi queste domande?”. Più tardi, all'epoca del processo per mafia, Scalfari impettito nella cabina telefonica detta il pezzo con i punti, le virgole, le aperte virgolette, le chiuse virgolette e lo spelling del nome proprio Talleyrand. Un attimo prima, il procuratore Caselli si è spruzzato tanta lacca sui capelli bianchi da aprire un altro buco nell'ozono. La tesi di Sorrentino – appena dissimulata dietro il registro grottesco, scandito dalle migliori battute andreottiane (lui sì che dovrebbe essere pagato, e bene, per la collaborazione alla sceneggiatura) – si può riassumere così: il senatore era a capo di una banda criminale responsabile di parecchi cadaveri. Delitti atroci e ben congegnati: prova ne sia che la magistratura nulla ha potuto, e nulla potrà fare, per incastrarlo. Vediamo l'insediamento del settimo governo Andreotti, e poco dopo, dagli stessi corridoi lustri dove Cirino Pomicino si fa una pattinata, parte uno skateboard che finisce direttamente sul cratere dove morì Giovanni Falcone. Vediamo Andreotti alle corse dei cavalli – per crearsi un alibi? – e in montaggio parallelo l'uccisione di Salvo Lima, in puro stile Soprano o Padrino, scegliete voi. Vediamo Aldo Moro prigioniero, che compare nello specchio del bagno mentre Andreotti si lava le mani, neanche fossimo in un film dell'orrore (o in un film di Garrell, con la fidanzata morta che leva la pace al vivo). Recitato con gigioneria da Toni Servillo, il divo somiglia al critico gastronomico di “Ratatouille”, un tipaccio malmostoso che vive in una casa a forma di bara: trucco e orecchie esagerati, andatura da marionetta, bacio con Totò Riina al rallentatore. In casa Andreotti si prepara la minerale con le bustine di Idrolitina. Gli elettori vengono compensati con pacchi di spaghetti, caffé, anche soldi contanti messi in mano – orrore – a una signora.