IL CACCIATORE DI AQUILONI

Mariarosa Mancuso

    Non si vendono 8 milioni di copie nel mondo (2 soltanto in Italia, patria dei non lettori, la proporzione è interessante e andrebbe indagata) senza qualcosa di forte che scateni il passaparola. “Il cacciatore di aquiloni” aveva tutto e anche di più: un'amicizia infantile avvelenata dalla gelosia, il senso di colpa e l'espiazione, il destino che si allea con la storia per far più danni, il figlio del servo e il figlio del padrone, l'ambientazione afgana (in due tempi: prima dell'invasione sovietica e sotto i talebani, con tappa nella California degli emigrati), le etnie rivali, la fedeltà e la codardia, un intreccio romanzesco da non svelare a chi non ha ancora letto il libro o vedrà il film, un incipit a presa rapida: “Sono diventato la persona che sono ora a dodici anni”. Su tutto, le gare di aquiloni nel cielo di Kabul, quando ancora gli abitanti sperimentavano la dolcezza del vivere. Si vincono tagliando il filo degli aquiloni concorrenti: ancora non abbiamo capito come si fa, neanche guardando le molte scene aeree – e computerizzate - del film di Mark Forster. Per ricuperare i caduti entra in scena il cacciatore, che capisce dove tira il vento e dove l'aquilone atterrerà senza bisogno di guardare il cielo. Di etnia hazara (“viso tondo come una bambola cinese e occhi a mandorla”, scrive Khaled Hosseini nel libro) si chiama Hassan e fa le gare in coppia con Amir, che invece è pashtun come suo padre Baba, molto preoccupato perché il figliolo – e futuro scrittore – preferisce le storie alle risse. Il regista Mark Forster (“Monster Ball”, “Neverland”) e lo sceneggiatore David Benioff (“Troy”, “La 25ª ora”) hanno rispettato il romanzo, evitato la voce fuori campo del narratore, compresso il ricco materiale in un intervallo di tempo ragionevole, fatto qualche taglio, ai personaggi e alle loro biografie (tralasciando, per esempio, che il cattivo è figlio di madre tedesca e neonazi di ideologia). Ogni scena dura comunque un po' più di quel che dovrebbe durare, al netto delle complicanze. Tra i meriti condivisi da libro e film, c'è una visione non buonista dell'infanzia, e una visione molto realistica dell'Afghanistan talebano, con pubbliche lapidazioni di adultere in burka. Va da sé che da quelle parti “Il cacciatore di aquiloni” è vietato, e la produzione ha fatto emigrare i due giovani e bravi attori negli Stati Uniti per non esporli a rappresaglie.