TEZA

Mariarosa Mancuso

    In concorso a Venezia, l'epica etiope si ritrovò al centro di una rissa (vivace dibattito non rende l'idea: fu molto di più, con spiacevoli invasioni di campo). Il direttore della Mostra Marco Müller strapazzò i giornalisti perché non avevano segnalato il capolavoro di Haile Gerima già sulla base del titolo, ancora prima di vedere il film. I giornalisti gli fecero presente che dire “film etiope” è un po' come dire pizza bulgara, moda cecoslovacca o romanzo francese: prima di consigliarli a qualcuno, meglio verificare di persona, c'è il rischio di farsi il vuoto intorno. Indubitabilmente “Teza” resterà nella storia del cinema africano e nella carriera di un regista che lasciò il suo paese a 22 anni per trasferirsi negli Stati Uniti (dove ha lavorato all'UCLA e all'università del Maryland). I molti soldi spesi si vedono tutti, così come l'ambizione di raccontare tre decenni inquadrando un uomo-nazione, tale Anberber, che parte speranzoso per studiare medicina in Germania e si ritrova a fine anni Novanta nel villaggio dov'è nato, poco lontano dal monte Mussolini, con una gamba maciullata, un bastone in mano per camminare, i saggi del paese che lo credono posseduto dai demoni e organizzano esorcismi con la complicità della madre. Grazie a una serie di flashback – che disgraziatamente cominciano troppo tardi rispetto alle due ore e venti minuti di film, quando ormai siamo rassegnati ai paesaggi, alle visioni e alla voce fuori campo – scopriamo chi gli ha rovinato la gamba. E anche perché Anberber – quando Menghistu salì al potere dopo la morte dell'imperatore Hailé Selassié –  ebbe la malaugurata idea di ritornare in patria per dare il suo contributo alla rivoluzione (musica a palla per sottolineare le scene più melodrammatiche, scene simboliche con granaglie e libri, per lo spettatore incapace di capire da solo che qui si parla di intellettuali e rivoluzione). Per dare la misura del dramma, ricordiamo che da una parte c'erano i sostenitori della Cina di Mao, dall'altra i fan del comunismo albanese. A nulla valgono le parole di una giornalista americana che fa timidamente notare “ma lo sapete quanto male si vive in Albania?” (viene subito tacciata di propaganda imperialista). Come risarcimento per il mancato premio dell'anno scorso, Haile Gerima torna quest'anno al Festival di Venezia come presidente della giuria per le opere prime.