DISASTRO A HOLLYWOOD

Mariarosa Mancuso

    Dai più nobili ai meno nobili, i film che raccontano i retroscena di Hollywood sono centinaia. Illustrano i patemi degli sceneggiatori, i maneggi dei produttori, i capricci delle star, i ripensamenti dopo le anteprime con il pubblico (celebre quella che cambiò la cornice di “Viale del tramonto”: William Holden, invece di galleggiare in piscina, stava alla morgue sotto il suo bel lenzuolino, l'etichetta con il nome agganciata all'alluce, si tirava su e attaccava a narrare la sua storia). Comincia con una disastrosa prima visione anche “Disastro a Hollywood”, tratto dalle memorie del produttore Art Linson, che ha nel suo carnet “Fight Club” e “Into the Wild”, corredati da una gran voglia di mostrare quanto corrotta e pasticciona possa essere la fabbrica dei sogni. Nel memoir, pubblicato da e/o con il titolo “What Just Happened? – Storie amare dal fronte di Hollywood”, esibisce il frontespizio di una sceneggiatura con diciotto revisioni, alla fine non c'erano abbastanza pennarelli colorati per le modifiche. Lo affianca Robert De Niro, ormai alla disperata ricerca di ruoli che non facciano rimpiangere i meriti passati, in attesa di girare la terza puntata del tormentone “Ti presento i miei”. Nel film di autore europeo – un pazzo furioso che ha per modello Iñarritu e il suo “Amores perros” – viene fatto secco il protagonista e subito dopo un cane. Per la legge non detta ma sempre valida - al cinema nessuno più si scandalizza quando vede gli umani massacrati, ma freme quando vede un barboncino maltrattato - il pubblico dell'anteprima riempie le schede di fantasiosi insulti. Bisogna rimontare la pellicola, prima che vada a Cannes, e questa volta sarà il produttore a decidere il final cut. Per ironia non prevista dal regista Barry Levinson, la disgraziata sorte del film nel film riproduce assai fedelmente le vicissitudini del film. Dopo i primi commenti poco lusinghieri, “Disastro a Hollywood” è stato rimontato in tutta fretta per essere presentato a Cannes fuori concorso (dove nessuno si è risentito per la patente di imbecillità che, al pari di “Hollywood Ending” di Woody Allen, affibbia ai critici europei). Il doppio lavoro e gli aggiustamenti in corsa non sono bastati. De Niro recita con il pilota automatico, le battute sulla fotografia che apparirà su Vanity Fair divertono più che altro gli addetti ai lavori, Bruce Willis viene preso in giro con più convinzione di Sean Penn.