DUPLICITY

Mariarosa Mancuso

    Un colpo di scena dà la felicità, due colpi di scena danno doppia felicità, tre colpi di scena danno tripla felicità. Poi l'aritmetica se ne va da una parte, e il cinema dall'altra: un colpo di scena ogni quarto d'ora, in un film di due ore, mina il successivo mentre ancora stiamo facendo i conti con il precedente. Invece di divertire, l'accumulo spazientisce. Invece di appassionare, la scacchiera continuamente buttata per aria tiene lo spettatore a distanza di sicurezza dalle spie e dalle loro manovre losche. A che vale cercare di capire chi sta imbrogliando chi, e per cercare cosa, quando le nostre certezze saranno smantellate di lì a pochi minuti? Meglio godersi i duetti tra Clive Owen e Julia Roberts, di nuovo insieme dopo il perfido “Closer”: entrambi splendidi, entrambi affascinanti, entrambi bugiardi, entrambi inaffidabili, entrambi impegnati – fa notare un critico feroce – a imitare Cary Grant. Claire e Kay si sono conosciuti al consolato americano di Dubai, week end del Quattro Luglio: lei lo ha rimorchiato al buffet, lo ha trascinato a letto, lo ha drogato prima di perquisire la stanza in cerca di chissà quali informazioni. Ovvio, visto che lei lavora per la C.I.A., lui per l'MI5. Ora entrambi si sono messi in proprio, ma l'orgoglio maschile vuole vendetta, o almeno una spiegazione. All'inizio del film, mentre Kay cerca un contatto per un lavoro da sbrigare (segno di riconoscimento, un portachiavi), trova la donna che lo ha sedotto, abbandonato, e lo guarda con un po' di compatimento. Intanto si chiarisce lo sfondo: due multinazionali dirette rispettivamente da Paul Giamatti  e Tom Wilkinson, in guerra per una misteriosa formula (come McGuffin, abbastanza indovinato, ma molto più prosaico dell'uranio di “Notorious”, nascosto nella bottiglia di champagne). Tony Gilroy, figlio d'arte, ha scritto la saga di Jason Bourne (assegno da due milioni di dollari solo per il terzo episodio) e “Michael Clayton”. In “Duplicity”, preferisce stupire che intrattenere. Dimentica che a Cary Grant, quando litigava con Katharine Hepburn, bastava una pallina da golf o un osso da dinosauro per dar fondo alle battute. E che quando guardiamo (per l'ennesima volta) “La casa dei giochi” di David Mamet restiamo stupefatti perché ogni colpo di scena in realtà è stato debitamente annunciato, dissimulando con astuzia sopraffina tutti i segnali. Lo sceneggiatore è più avanti, ma non inganna.