FIGHTING

Mariarosa Mancuso

    Apparso come un fulmine sulla scena letteraria e cinematografica con “Guida per riconoscere i tuoi santi”, Dito Montiel gira il suo secondo film (prima aveva provato a sfondare con la musica, suonando nella hardcore punk band Major Conflict e firmando un contratto con la Geffen records come leader dei Gutterboy, prima ancora aveva posato per Versace e Calvin Klein). Channing Tatum, che aveva una piccola parte a fianco di Robert Downey jr (lo scrittore e regista da grande, la storia era autobiografica) e di Shia LaBeouf (lo scrittore da piccolo, figlio di Chazz Palminteri e Dianne Wiest), viene promosso a protagonista. Faccia e canottiere che ricordano il giovane Marlon Brando, figlio di un allenatore di wrestler, arrivato a New York dall'Alabama, vende all'angolo della strada libri di Harry Potter taroccati. Una rissa per questioni territoriali lo introduce nel mondo della boxe clandestina, tra Manhattan, Brooklyn e il Bronx (ogni etnia governa un quartiere, di qua i russi, di là i portoricani). Tanti soldi, e subito: come un Fight Club immaginato da Chuck Palahniuk, ma qui la gente è disposta a sborsare, per prendersi un pugno in faccia. Naturalmente conosce una cameriera carina, naturalmente la cameriera carina è una madre single, naturalmente si piacciono. Un po' meno naturalmente, si corteggiano a lungo, mentre la mamma di lei si impiccia come può. E' la boxe in stile Rocky, dove contano soprattutto il buon cuore dei personaggi e l'amicizia tra i due uomini da marciapiede: l'altro è Terrence Howard, bravissimo attore visto accanto a Jodie Foster nel film, non memorabile, intitolato “Il buio nell'anima” e in “Crash” di Paul Haggis (era anche in “Quattro fratelli” di John Singleton: remake all black, assai ben riuscito, del western di Henry Hathaway “I quattro figli di Katie Elder”, con John Wayne e Dean Martin). Il passaggio dall'autobiografia al film di genere non riesce al cento per cento. Per un film sul pugilato clandestino ci sono poche scazzottate, per un film drammatico e d'autore ce ne sono troppe. Certe scene sono originali e ben dirette, altre risultano soltanto curiose. Dito Montiel però sa scegliere bene gli attori, e riserva loro tutte le cure necessarie. Le altre vanno agli interni: da tanto non si vedevano case newyorchesi tanto minuscole, stipate, cadenti.