DISTRICT 9

Mariarosa Mancuso

    Rimangono senza carburante dalle parti di Johannesburg, unico motivo valido per fermarsi da quelle parti: gli alieni invasori preferiscono Washington, dove possono buttare giù l'obelisco, oppure New York, dove possono giocare all'11 settembre con i grattacieli o molestare la Statua della Libertà. L'astronave rimane ferma nel cielo grigio, e invece delle musiche celestiali, degli omini con il capoccione visti in “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, di E. T. con il testone, gli occhi lucidi e il dito a lampadina, raccoglie esseri sporchi e affamati. Dopo una bella lavata con il disinfettante, vengono sistemati nel “District 9”, dove i “gamberi” subito fanno comunella con la malavita nigeriana che li rende dipendenti dalle scatolette di cibo per gatti (e ogni tanto ne sacrifica qualcuno per acquisirne i poteri banchettando). “Gamberi” naturalmente è il temine politicamente scorretto per indicare i nuovi arrivati: hanno la testa di canocchie, camminano su due zampe, dopo vent'anni dallo sbarco – quando il film comincia, con lo stile del mockumentary o finto documentario – hanno addosso il perizoma e qualcuno anche uno straccio di gilé. Per l'odio che ormai suscitano nel resto della popolazione, e per qualche problema di ordine pubblico come la prostituzione tra specie diverse, arriva l'ordine di sgombero. Lo slum sarà trasferito fuori città, qualche centinaio di chilometri distante. Prima però bisogna convincere gli alieni, a cui la burocrazia ha dato nomi e cognomi umani, e anche farsi mettere una firma in calce al modulo. Guida le operazioni l'impiegato più idiota della MNU (sta per Multi-National United): lo vediamo all'inizio che ha problemi perfino con il microfono, e il suo abbigliamento con camicia a maniche corte nella versione originale assieme all'accento sudafricano – lo rendono subito ridicolo. Poi scopriamo che è stato il suocero a metterlo lì, probabilmente per liberarsene fingendo un incidente. L'incidente che succede, è un po' peggio che restar ferito in missione. Girato a basso costo e prodotto da Peter Jackson (il sudafricano e il neozelandese si sono conosciuti mentre cercavano di ricavare un film da “Halo”, videogioco per i più, universo narrativo per gli adepti), il film vanta molti colpi di scena, altrettanti scavalcamenti di genere, un messaggio utile al marketing virale e agli irriducibili amanti del dibattito.