LEBANON

Mariarosa Mancuso

    Il carro armato israeliano somiglia all'astronave di “Alien”: caldo, unto, gocciolante, buio e rumorosissimo. A bordo, quattro giovani soldati in preda al panico prima ancora che il nemico spari un colpo (già le istruzioni del comandante, per la verità, sono poco rassicuranti e abbastanza generiche). E' il 6 giugno 1982, primo giorno della prima guerra del Libano. Lo stesso conflitto che Ari Folman aveva raccontato in “Walzer con Bashir” usando tutti gli stili del cinema d'animazione. Lo stesso conflitto che Joseph Cedar aveva raccontato in “Beaufort”, ambientato 18 anni dopo: il fortino nel sud del Libano, trionfalmente conquistato, sta per essere sgomberato perché la guerra sta per finire. Il regista Samuel Moaz era in quel carro armato, e ci siamo anche noi, per tutti i novanta minuti del film. Il resto del campo di battaglia è inquadrato attraverso un mirino, e quando vediamo qualcosa di leggiadro come un campo di girasoli risultano essere la pubblicità di un'agenzia turistica appena distrutta. Il nervosismo diventa subito confusione: i quattro si ritrovano in mezzo alle truppe siriane, hanno a bordo un ferito, devono fidarsi di un falangista che forse li tirerà fuori dai guai, per ora minaccia in arabo il prigioniero. Solo noi capiamo le torture nel dettaglio, sibilate in arabo, e vorremmo avvertire i soldati di non fidarsi. Loro però si sono persi in una piantagione di banane, appena passato il confine. Opera prima al 99,9 per cento autobiografica (il regista e sceneggiatore Samuel Moaz sentiva odore di carne bruciata ogni volta che si metteva a scrivere), “Lebanon” è un bellissimo film di guerra. Sulla confusione della guerra: all'opposto del classico war movie dove ogni morte ha una ragione, e viene in un certo senso preannunciata: muore chi si distrae per cogliere un fiore, chi esce dalla trincea per raccogliere un ferito incurabile, i soldati di colore muoiono sempre prima dei bianchi. Guastato dal partito preso dello spazio unico: dopo un po', notiamo soprattutto la bravura del regista, la perfezione della colonna sonora, il coraggio di mostrare un mirino israeliano che inquadra donne e bambini. “The Hurt Locker” di Katryn Bigelow –  film altrettanto claustrofobico su un disinnescatore di mine che a volte non usa la tuta perché in Iraq fa caldo – è altrettanto costruito ma molto più emozionante.