IL NASTRO BIANCO

Mariarosa Mancuso

    Il castigatore di costumi austriaco non lascia nulla al caso. Nel film ambientato nel villaggio tedesco di Eichwald alla vigilia della Prima guerra mondiale, i bambini hanno un nome e gli adulti hanno solo un ruolo in società: il Pastore, il Barone, il Contadino, il Dottore. Dunque già sappiamo che dietro le immagini c'è un messaggio: da una parte ci sono gli innocenti (perlomeno presunti), dall'altra ci sono quelli che innocenti non sono da molto tempo, ma vorrebbero comunque trasmettere ai giovani un'educazione: il nastro bianco del titolo è imposto dal pastore protestante ai figlioli, perché ricordino ogni momento quanto lontana e faticosa da raggiungere è la purezza. Nella mente del giornalista collettivo tutto questo si riassume in due parole “società repressiva”. Siccome di lì a poco arriveranno Hitler e il nazionalsocialismo, le conclusioni sono presto tratte, si esce dal cinema con la verità in tasca. Due ore e mezza in bianco e nero bergmaniano, “lentezza mai tediosa” come dicono i molti ammiratori del regista, niente musica perché potrebbe distrarre: chi ha detto che i cineclub sono scomparsi? sono di nuovo tra noi (provate, per esempio, a consigliare “Up” a chi sempre lamenta la chiusura delle piccole sale e deplora i film fracassoni a misura di adolescente; uno sguardo vi gelerà, accompagnato dallo strilletto: “ma è un film di animazione!”). Al maestro ormai invecchiato tocca l'onore del racconto, quindi la voce fuori campo non dà tregua. Nel villaggio succedono cose strane: per esempio, qualcuno ha teso un filo invisibile, mandando il Dottore all'ospedale. Poi tocca ai bambini, normali o ritardati. Poi agli uccellini in gabbia (e qui lo spettatore collettivo, che evidentemente non ha mai maltrattato lucertole in vita sua, distoglie lo sguardo). Man mano che si avvicina l'estate del 1914, speriamo qualcosa succeda, giacché sull'identità del colpevole abbiamo subito fondati sospetti: il gioco preferito di Haneke è torturare lo spettatore con il nulla. Poiché la dura vita dello spettatore seriale non basta a spegnere gli entusiasmi, abbiamo sperato che oltre a “La pianista” di Elfriede Jelinek il regista avesse letto “Il signore delle mosche”: i bambini nascono perfidi, l'educazione non può che migliorarli. Niente di niente. Per umiliarci fino in fondo gli hanno dato la Palma d'oro a Cannes rubandola a Quentin Tarantino.