DORIAN GRAY

Mariarosa Mancuso

    Il salto tra “Le cronache di Narnia” (“Il principe Caspian”, nel ruolo del titolo) e Oscar Wilde era acrobatico. Ben Barnes miseramente lo fallisce, con la complicità del regista Oliver Parker, pure recidivo. I suoi adattamenti di “Un marito ideale” e “L'importanza di chiamarsi Ernesto” erano appesantiti dalla scarsa sensibilità del regista alle battute del divino Oscar, che nella nostra ingenuità credevamo a prova di idiota. Pareva impossibile rovinare certi aforismi sulle sigarette, il matrimonio, l'arte: il film ci riesce, facendole pronunciare con la solennità di chi sta per avviare una raccolta di firme. Poiché i disastri non arrivano mai soli, Oliver Parker sbaglia il cast, a cominciare dall'attor giovane che sta in scena tutto il tempo senza invecchiare mai, mentre il ritratto su in soffitta si carica di rughe. Oltre a non essere abbastanza bello – rendendo incomprensibili le scene dove i salottieri si sdilinquiscono davanti alla leggiadria sua e del ritratto – indossa gli abiti come se fosse ancora nel camerino di prova, indeciso se accettare la parte (“che cravatta ridicola, quasi torno a Narnia, l'armatura e lo spadone mi donano di più”). Quando poi – da ex ragazzo di campagna corrotto dalla season londinese e dall'aristocratico Henry Wotton – deve mostrare la sua spietatezza, non trovano di meglio che spettinarlo, alternativa molto praticata quando un attore arranca. Il cattivo maestro è Colin Firth, barba e guardaroba damascato, così lo spettatore – mai il protagonista – capisce subito che deve stare alla larga. Poi il diabolico mentore cresce, si pente, mette la testa a posto e si torce dal dolore per aver creato un mostro, mentre il discepolo continua nella sua vita dissoluta. Smarrito ogni contatto con l'originale, il regista si butta sull'horror e sugli effetti speciali, come se in Dorian Gray si nascondesse un Mister Hyde.