IL FIGLIO PIU' PICCOLO

Mariarosa Mancuso

    Più di tutto e di tutti abbiamo apprezzato Laura Morante, detta in famiglia “la scemina”. Il marito imbroglione la sposa nella prima scena del film per poi filarsela all'istante, giusto il tempo di farsi intestare le proprietà. La ritroviamo cantante stonata, in coppia con Sydney Rome (e intanto torna in mente il Roman Polanski di tanti anni fa, quando girò un film intitolato “Che?”, molto liberamente ispirato a “Alice nel paese delle meraviglie”, e l'attrice aveva una gamba dipinta di blu). Il duo con chitarra viene fischiato e spernacchiato, ma le due restano impassibili. Intanto i figli, già ragazzini al tempo dello sposalizio, sono cresciuti abbastanza per risolvere un altro guaio, tanto intrecciato con la politica che neanche proviamo a riassumerlo. Le anime nere sono sempre il faccendiere Christian De Sica e il suo commercialista (si fa per dire e per capirci, il buon nome della categoria è salvo senza bisogno che l'associazione quereli): un Luca Zingaretti ipocondriaco e in sandali da frate, residuo segno di certi trascorsi religiosi. Vittima designata, appunto, il figlio piccolo: uno che si lamenta con la proiezionista della multisala perché tagliano i titoli di coda, che frequenta il DAMS, che sogna di girare un film più idiota di lui, credendosi Tarantino o almeno uno di quei registi pulp che non piacciono a Nanni Moretti (il regista si è tolto più di un sassolino dalla scarpa, insiste parecchio sui dettagli). “Gli amici del bar Margherita” raccontava la crudeltà delle combriccole di provincia, capaci di architettare scherzi da rovinar la vita a un poveretto (finta convocazione al festival di Sanremo, atroce delusione, anni successivi a morire di vergogna). “Il figlio più piccolo” racconta gli intrallazzi, i matrimoni di interesse, i bilanci allegri, le holding a scatola cinese e molte altre cose che si leggono sui giornali. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per una commedia spietata, genere che sempre viene invocato perché gli sceneggiatori e i registi buoni rovinano i personaggi per troppo amore. Pupi Avati non corre questo rischio. Qui inciampa però nella trappola opposta. Non di solo sdegno infatti vive una commedia. Per fa appassionare lo spettatore serve un po' di gusto per le trame criminali e un po' di complicità. Christian De Sica va bene per truffare le signore svampite e i ragazzini, non per costruire un impero sia pure fasullo.