HAPPY FAMILY

Mariarosa Mancuso

    Tra tante famiglie rivisitate dal cinema italiano, mancava quella con la deriva pirandelliana. Provvede Gabriele Salvatores, usando Groucho Marx come guida: “Preferisco vedere un film, perché nella vita non c'è una trama”. Letto, approvato, sottoscritto. Per questo spesso restiamo scontenti dopo aver visto certe pellicole che la trama la dimenticano per strada. Oppure – come capita in “Happy Family” – ne sfruttano una che fa battibeccare i personaggi con lo sceneggiatore. Sceneggiatore dilettante, neanche a farlo apposta: come Hugh Grant in “About a Boy-Un ragazzo” (tratto dal romanzo di Nick Hornby, diretto da Paul e Chris Weitz), il nostro eroe – nel film si chiama Ezio e ha la faccia di Fabio De Luigi – possiede abbastanza soldi per vivere tranquillo, deve solo trovare il modo di occupare le giornate. E' una delle innumerevoli citazioni e autocitazioni, in una gamma che va da “I soliti sospetti” a “Marrakech Express”: Diego Abatantuono in bermuda e camicia a fiorelloni guarda Fabrizio Bentivoglio tutto elegante e gli chiede “Non ci siamo già visti in Marocco noi due?”. Ezio si mette al computer, scrive qualche scena, immagina due sedicenni che si vogliono sposare (lui perbenino figlio di avvocati, lei biondo platino figlia di genitori dediti alle canne e ai litigi), si perde con una massaggiatrice cinese e viene richiamato all'ordine dai personaggi: io voglio più spazio, io credevo di essere la protagonista, spero che tu abbia qualcosa di interessante in serbo per me (l'epidemia pirandelliana è tale che perfino la nonna svanita, che non riconosce il figlio e a tavola servirebbe tre volte di seguito i tagliolini, esprime le sue rimostranze). La confezione è smagliante, a partire dal sipario rosso d'apertura, e rimanda sia all'origine teatrale della commedia (firmata da Alessandro Genovesi) sia a Baz Luhrmann che aveva aperto così nientedimeno che “Moulin Rouge”. Le scenografie, i costumi, la fotografia sono sfarzosi e curati come di rado accade nel cinema italiano. Perfino la Milano d'estate – sempre ripresa da sotto in su, c'è anche un gabbiano – fa la sua bella figura. Abbiamo fatto più fatica a reggere Chopin sulle immagini della città di notte. E pure certe conversazioni sull'esistenza, la durata delle cose, il mare, le sedie, il senso della vita. Messe lì per impreziosire una trama esile, quasi impalpabile.