INTO PARADISO

Mariarosa Mancuso

    Giusto per sapere cosa dicono di noi, là dove il cinema è stato inventato, e dove ancora i talenti si celebrano appassionatamente. Poi arriveranno come dappertutto i bastoni tra le ruote, le invidie, gli ostacoli. Ma l'entusiasmo con cui gli americani sanno celebrare un bravo sconosciuto è paragonabile solo all'entusiasmo con cui il direttore di Cannes Thierry Frémaux presenta sul palco ogni film da lui selezionato, dando l'impressione che è il suo prediletto. “Ingiustamente relegato nella sezione Controcampo italiano”, scrive Screen International sul film di Paola Randi (gente così non può immaginare che la coppia Saverio Costanzo-Paolo Giordano aveva un posto prenotato in concorso a Venezia ancora prima che sul set di “La solitudine dei numeri primi” si udisse il primo ciak). “Quirky feelgood spirit”, è la spiegazione: un bizzarro film che mette di buon umore. Visto e considerato che “Into paradiso” parla di disoccupati, di mafia, di immigrati nei bassi napoletani, è ben più di un miracolo. Infatti san Gennaro non c'entra. C'entrano cinque anni di lavoro, e una sceneggiatura attenta a ogni dettaglio, studiato per deliziare lo spettatore. Non ci sarebbe bisogno di far dormire Gianfelice Imparato di fianco a un cimitero, né di renderlo ipocondriaco al punto che legge le istruzioni dei tappi per le orecchie, se uno vuole deplorare la triste sorte degli immigrati. Se uno vuole girare un film degno del nome, la faccenda cambia. Bisogna trovare un buon motivo per far finire il ricercatore napoletano appena licenziato in un fondaco abitato solo da srilanchesi (fatto). Bisogna inventare qualcosa che faccia rimare una con l'altra le scene del film. Fatto anche questo: una soap opera, amata dalla signora anziana e dagli altri personaggi, anche dopo morti (come vedere la tv dopo morti? Basta un figlio devoto che mette il tuo ritratto incorniciato davanti allo schermo, altro che lumino). Basta far chiedere a uno srilanchese, continuamente scambiato per indiano, cosa vuol dire “ci fa?”. Basta mettere in scena Peppe Servillo come piccolo camorrista e mescolarlo con un paio di siparietti, animati o surreali. Sul tetto arrivano i poliziotti, piazzando tavolini di ferro e macchina per scrivere, e pure una lampada. Anche se siamo in pieno sole, viene accesa e sbattuta in faccia all'interrogato.