SOURCE CODE
Gli otto minuti della marmotta, rivissuti sei volte. Non c'è solo da corteggiare una ragazza, qui. C'è da sventare un attentato a Chicago, perpetrato da un killer che come primo avvertimento ha messo una bomba sul treno dei pendolari. Ci siete fin qui? Bene, perché arriverà parecchio altro. Anatre in volo, treno in corsa, interno scompartimento dove Jake Gyllenhaal – nel film ha nome Colter Stevens – viene chiamato Sean da una ragazza con il faccino di Michelle Monaghan che gli sorride e gli parla affettuosamente. Il nostro va in bagno e nello specchio vede una faccia diversa dalla sua. Torna, urta un passeggero, ne osserva un altro, e bum!, la bomba scoppia. Poi si ricomincia da capo: anatre in volo, treno in corsa, interno scompartimento dove Jake Gyllenhaal – che si chiama sempre Colter Stevens – incontra una ragazza con il faccino di Michelle Monaghan. Stavolta però le cose vanno un po' meglio. Intanto noi e lui cominciamo a orientarci tra gli altri passeggeri del treno, e ad aver qualche sospetto su quello che ha messo la bomba ed è sceso prima dell'esplosione. Il film di Duncan Jones – figlio di David Bowie, da piccolo lo chiamavano Zoowie Bowie, già regista di “Moon” con Sam Rockwell – si basa sulla fantascientifica premessa che nel cervello restino impressi gli ultimi otto minuti di vita, e che sapendoli utilizzare si potrebbero sventare molti crimini. Come vengano utilizzati, non ve lo diremo. E' uno degli dettagli che rendono “Source Code” un film di culto (per chi lo ama) e un assurdo pasticcio (per chi non lo apprezza). Noi siamo più propensi al no, giacché il film sugli universi paralleli e i viaggi nel tempo non funzionano mai. Si va indietro nel tempo, si cambia una cosetta, seguono cambiamenti a catena, l'eroe torna in un mondo diverso da quello che aveva lasciato. O addirittura, incrociando la formula “nel-passato-non-si tocca-nulla” con la tragedia greca – colui che cerca di fuggire il proprio destino riesce solo a compierlo – si finisce per provocare proprio quel che si voleva evitare (“Terminator” è l'esempio più clamoroso, gli sceneggiatori bravi magari non hanno fatto il classico, ma l'hanno capito). Regna sugli otto minuti della marmotta la terribile Vera Farmiga in divisa militare. Le carte da gioco evocano “Il candidato della Manciuria”, dov'era questione di lavaggio del cervello.
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