LA PELLE CHE ABITO
Verrebbe da dire che Almodóvar ha combinato un pasticcio, se il film non fosse ordinato come una farmacia d'altri tempi e asettico come una sala operatoria. Se non fosse lustrato nei dettagli, farcito di riferimenti a Pina Bausch e a Louise Bourgeois, senza dimenticare Hitchcock di “La donna che visse due volte”, un po' di Cronenberg prima della svolta psicoanalitica, e un classico dell'horror francese come “Occhi senza volto” di Georges Franju. Nel 1960 il film fece svenire spettatori e critici al Festival di Edimburgo, e il regista commentò: “Ora so perché gli scozzesi portano il gonnellino”. Visto oggi, rimane spaventoso nonostante le dichiarazioni del regista: “Gli spagnoli non volevano offese alla religione, gli italiani non volevano donne nude, i francesi non volevano sangue, gli inglesi non volevano animali maltrattati. E io che pensavo di fare un horror!”. Sta di fatto che la maschera gessosa con cui si aggira di notte la ragazza sfigurata dal padre, che ora cerca pelle di fanciulle per rifare i connotati alla figliola, turba anche i sonni di chi non si è scomposto vedendo “Hostel” e “Saw”. Antonio Banderas, con un sovrappiù di brillantina grondante dallo schermo, in “La pelle che abito” fa il chirurgo plastico, in cerca di una pelle artificiale per curare gli ustionati. In casa tiene una flessuosa fanciulla in tuta color carne, e ci vorrà un po' prima che lo spettatore cominci a orientarsi (colpa anche di una sequenza grottesca con un uomo-tigre che non conduce da nessuna parte e fa rimpiangere il Pedro della movida, scarso nella regia ma ricco di passioni). La accudisce una Marisa Paredes tale e quale alla governante Danvers di Rebecca “La prima moglie”: i pasti arrivano sul vassoietto, per le conversazioni (anzi gli ordini) serve l'interfono, uno schermo gigante consente allo scienziato pazzo di spiare la creatura. La trama viene da “Tarantola” dell'ormai defunto Thierry Jonquet, adattata quanto basta per spaesare ancor di più: il romanzo datato 2003, uscito per l'occasione da Einaudi, non brilla per coerenza narrativa, ma almeno aveva tre voci intrecciate, in caso di noia se ne salta una. Sul tema, Almodóvar si era fatto capire meglio nel monologo di Amparo in “Tutto su mia madre”: rifatta e fiera di esserlo, in spregio all'autenticità.
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