SETTE OPERE DI MISERICORDIA

Mariarosa Mancuso

    E' giusto per fare un esempio comprensibile, con mille scuse a James Joyce per averlo scomodato. Come leggeremmo l'”Ulisse” se avesse un altro titolo, magari “Passeggiando per Dublino” oppure “La mia vita con Molly?”. Se lo domandano i critici letterari alle prese con le avventure di Leopold Bloom, indecisi se ringraziare per l'utile dritta di interpretazione, o accusare lo scrittore di aver giocato al nano che si arrampica sulle spalle del gigante. Con un titolo così sfacciato, e relativa scansione in capitoli, difficile girare le spalle e dire: “Lo leggerò quando sarà rimasto l'unico libro al mondo, o io sarò sull'isola deserta con il kindle scarico”. Accade lo stesso con il film dei gemelli De Serio: punitivo al massimo, presentato in accurata e sublime confezione. Le sette misericordiose opere suggerirebbero di dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. Ognuna compare sullo schermo, spesso girata di segno e sempre curata nell'effetto “pugno nello stomaco”. Tanto che dopo le prime due, capito il gioco, aspettiamo gli altri piccoli colpi di scena (cosa non si fa per trovare comunque un motivo d'interesse, anche in un film che fa sembrare i fratelli Dardenne due allegroni che girano in luoghi di gozzoviglie). I cartelli della misericordia incorniciano e scandiscono la storia di Luminita, ragazza moldava vestita di stracci che si aggira in un ospedale assai sinistro. E di Antonio, vecchio ugualmente vestito di stracci che all'ospedale giace (poi scopriamo che ha una casuccia, forse qualche losco traffico). Riponiamo la nostra speranza nei cartelli perché “Sette opere di misericordia” non fa nulla per consolare l'afflitto spettatore (sconfiniamo qui nelle altre sette opere di misericordia, spirituali e non più corporali). Nessuno parla mai, se gli scappa qualche parola la pronuncia dietro un vetro, incomprensibile ai più. Apprezziamo il fatto che ci siano poveri di non specchiata virtù, ma un'ora e mezza di bambini rubati e misere periferie fa pensare al partito preso della sgradevolezza, non a una qualche forma di “sporco realismo”. Alla fine i corpi ammalati, piagati, sofferenti cominciano a sembrare un'installazione. Non – come vorrebbero essere – un dipinto di Caravaggio.