L'ESTATE DI GIACOMO

Mariarosa Mancuso

    Si capisce che il giovane regista e sceneggiatore – classe 1982 – ha sciacquato i panni in acque diverse dal paludoso cinema italiano (Bruxelles e Parigi sono le città di riferimento). Si capisce dall'originalità del progetto, dall'insistenza sui corpi accaldati, dal coraggio con cui apre il film su un ragazzo sordo che malmena una batteria rompendo i timpani allo spettatore. Si capisce dall'ossessione per il cinema-verità: l'attore Giacomo Zulian è il figlio del suo migliore amico, ripreso all'inizio con l'apparecchio acustico (poi un'operazione gli restituisce l'udito, visto che risponde a tono). Il diciottenne articola le parole con una certa fatica (tutto il film ha i sottotitoli), sgraziato come chi ha imparato a esprimersi aiutato dal logopedista. Va al fiume con un'amica sedicenne – Stefania Comodin, sorella del regista. Prima di arrivare alla spiaggetta passa un bel quarto d'ora, tra sentieri poco battuti e ostruiti dagli alberi: “Natura di merda”, commenta leopardianamente Giacomo. Trovano una pozza azzurra, si lanciano manciate di sabbia. Molto più erotiche delle “Sfumature di grigio” che impazzano tra le signore alla ricerca di un romanzo rosa sotto copertura sadomaso: Christian Gray è miliardario, bello, segnato da un'infanzia difficile e contrario al matrimonio, roba da far scattare qualsiasi femmina in modalità “io ti salverò” (e se da neolaureata cerchi un impiego nell'editoria lui compra direttamente la casa editrice, accontentandosi per ringraziamento di due schiaffi sul vergine culetto). “L'estate di Giacomo” prima irrita, poi seduce, poi stanca, poi appassiona di nuovo (con molte riserve da parte nostra sul finale, dove la parte narrativa prevale sullo stile documentario). I francesi, coproduttori assieme all'italiana Tucker, sono letteralmente impazziti. I direttori di festival pure: l'anno scorso a Locarno Alessandro Comodin ha vinto il Pardo d'oro nella categoria “Cineasti del presente”, da allora è stato invitato e applaudito dappertutto, ha avuto una recensione su Variety e una sui Cahiers du Cinéma. Meglio la prima, che segnala al regista due o tre punti poco comprensibili, lasciati alla fantasia collaborativa dello spettatore. Anche le inquadrature che riprendono gli attori di spalle, a furia di ripetersi, smettono di essere naturali per diventare un vezzo. Saperlo, torna utile – e fa da augurio sincero – per il prossimo film.