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Mariarosa Mancuso

    Il romanzo di Silvia Avallone faceva parte della serie fabbricata a tavolino per bissare il successo di “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano (lui intanto era andato oltre, guadagnandosi una collana: “I numeri primi”). Si riconoscono subito: scrittore o scrittrice esordiente, personaggi adolescenziali che pur abitando nelle pagine dello stesso libro fanno fatica a incontrarsi, oltre che a crescere “in questo mondo che non dà ai giovani né sicurezze né prospettive”. La recensione è bella e pronta, di solito la si trova già suggerita nel risvolto di copertina. Come sfondo, torna utile l'aula scolastica, oppure una famiglia dove almeno un componente se ne sta in disparte, o proprio non appare, o è scappato per farsi una vita altrove (forse anche urlando: “Tiratemi fuori da questo romanzo, da grande voglio fare il personaggio di Philip Roth”). La mossa azzeccata di Silvia Avallone trasporta il dramma adolescenziale nell'acciaieria di Piombino (ex Ilva, antico nome etrusco dell'Isola d'Elba e ora Lucchini). La classe operaia, più l'altoforno con la sua colata di fuoco, fanno sempre il loro effetto. Al cinema ancora di più, con i caschi, il sudore e le canottiere stazzonate. Le ragazze Anna e Francesca, in canottiera e anfibi, parlano e si rotolano – sullo schermo meno spesso che nella pagina – nello stesso letto.