
LA BOTTEGA DEI SUICIDI
La proiezione al Festival di Cannes era blindata: niente giornalisti, solo scolaresche, spiegò l'inflessibile addetto. Il giorno dopo, le polemiche: non tutti i bambini avevano gradito, qualcuno era scoppiato a piangere. Lo scandaletto è tornato in mente quando abbiamo letto del divieto ai minori di diciotto anni, accompagnato dai commenti di chi perlopiù il film l'aveva sentito raccontare. Ora che il divieto è stato revocato, e che abbiamo visto il film di Patrice Leconte, va detto che la risata macabra riesce meglio agli anglosassoni. Si ride con la Famiglia Addams. Si ride con il cane-Frankenstein di “Frankenweenie” targato Tim Burton (perfino la Disney, che anni fa preso atto del cortometraggio con attori in carne e ossa licenziò il regista, ora produce il lungometraggio d'animazione). Si ride con “Paranorman” e i suoi cervelli spappolati. Si ride con “Il libro dei coniglietti suicidi” disegnati Andy Riley. Si ride con Edward Gorey e i suoi “Gashlycrumb Tinies”, abbecedario di bambini che cadono dalle scale o annegano nello stagno. “La bottega dei suicidi” non fa lo stesso effetto: risulta più cupo che divertente, almeno nella prima parte, e nella seconda stramazzare per il sentimentalismo e le canzonette allegre (dopo il suo bel riferimento all'attualità, che in traduzione suona così: “Contro la crisi e il carovita scegli una dolce dipartita. Prendi il coraggio fra le dita. Canta con noi: Viva il suicidio”). Molto dipende dai disegni, che appioppano occhiaie nere alla francesissimi famiglia Tuvache, proprietaria di un negozietto dove i clienti trovano cianuro, corde per impiccarsi, sacchetti di plastica, e non devono mai essere salutati con un “arrivederci”. Si presume infatti che dopo aver fallito la propria vita riescano almeno a terminarla senza errori. Di Sylvain Chomet, regista del bellissimo “Appuntamento a Belleville” e “L'illusionista” (che in un paio di scene corteggiava il macabro con diversa tenerezza) ce n'è uno, difficile da imitare. All'origine, un racconto di Jean Teulé intitolato “Le magasin des suicides”, più abile nel maneggiare la materia. Per esempio, fa entrare in scena Alan il bambino che sorride (fratello di Mishima e di Marilyn: i genitori hanno la fissa, a pagina uno). Il film insiste sulla città dove anche i piccioni si suicidano, e sulla malinconica clientela, prima del ribaltone.


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