QUARTET

Mariarosa Mancuso

    Per il suo debutto da regista, all'età di 75 anni, Dustin Hoffman si intrufola in una casa di riposo per vecchietti musicisti. Dispettosi, smemorati, sempre pronti ad allungare le mani sulle inservienti carine, ancora abbastanza energici da fare gli sgambetti ai rivali quando si tratta di prendersi gli applausi. Lo scenario ideale per una commedia che infallibilmente smonta ogni resistenza dello spettatore, alternando piccole crudeltà e sentimentali tenerezze tra signore e signori maturi ma non pacificati. Con un cast da fare invidia a “Marigold Hotel” di John Madden, dove un gruppo di inglesi in età pensionabile si ritrova in un albergo indiano molto al di sotto delle promesse, e allegramente trovava un accomodamento tra i sogni esotici e la prosaica realtà. Alcuni, come Michael Gambon e Maggie Smith, sono passati attraverso la saga di Harry Potter, ed è un sollievo ritrovarli senza bacchette magiche e palandrane. Altri, come Tom Courtenay, li ricordiamo dai tempi di “Billy il bugiardo” o da “Il servo di scena”, e non hanno perso con gli anni presenza o bravura. Non c'è nulla di nuovo, né di particolarmente originale, in “Quartet”, che dopo le prime scene un po' di maniera (c'è da organizzare uno spettacolino per raccogliere fondi e impedire la chiusura del lussuoso ospizio, se solo i cantanti riuscissero a ritrovare l'intonazione, a ricordarsi l'orario delle prove, a non battibeccare di continuo) risorge con l'arrivo di Maggie Smith. In modalità “Downton Abbey”: altera, malinconica, infastidita per gli anni volati via, decisa a non piegarsi agli acciacchi (“sono in lista d'attesa per una protesi all'anca”) e alle regole di Beecham House. Dove ritrova un ex marito ancora furioso, e gli ex compagni di lavoro che vorrebbero farne la star dello spettacolo. “Mai e poi mai canterò di nuovo”, sibila infastidita, mentre ricorda le dodici chiamate alla fine di un famoso “Rigoletto” (“mia madre me ne ha parlato”, la rimbecca una coetanea). “Quartet” ha alle spalle una storia trentennale, che comincia con un documentario girato a Milano dal regista svizzero Daniel Schmid nella casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi. Nel 1999 Ronald Harwood (lo stesso di “Il servo di scena”, battibecchi in camerino tra un anziano attore shakesperiano e il suo assistente) ne ricavò il copione teatrale usato da Dustin Hoffman per il film.