LA FRODE

Mariarosa Mancuso

    Vita lussuosa e perfetta, o almeno così pare. Fino a che il grande uomo d'affari Richard Gere litiga con l'amante francese e gallerista. Letitia Casta ai minimi storici della recitazione, del resto la sceneggiatura non le offriva granché: una scena nuda, un'altra in abito da sera, e la battuta “amare vuol dire arrivare in tempo”, arrotando la erre. Un incidente d'auto la toglie di mezzo, facendo scivolare il film verso “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe. Il romanzo iniziava con il finanziere Sherman McCoy, noto a Wall Street come “The Master of the Universe” (etichetta rubata a una serie di fumetti Marvel ambientati sul pianeta Eternia, poi riciclata da E. L. James per il Christian Grey di “50 sfumature”: aveva intitolato così la sua fan fiction ispirata a “Twilight” di Stephenie Meyer, sappiamo come è finita). Un milione di dollari all'anno, quattordici stanze a Manhattan, una moglie, una figlia, l'amante d'ordinanza. E uno svincolo sbagliato, che dall'aeroporto porta i fedifraghi a perdersi nel Bronx: due giovanotti neri si avvicinano, uno viene investito. Tom Wolfe ne ricava un gran libro che segnò gli anni 80, il regista e sceneggiatore Nicholas Jarecki solo una sottotrama per “La frode”, presentato l'anno scorso al Sundance anche se i ritmi sono da film di denuncia un po' datato. Laurea alla NYU, 33 anni, è fratello di Andrew Jarecki che girò il magnifico documentario “Capturing the Friedman” su un processo per pedofilia. Nel 2005 ha diretto un documentario su James Toback, e ancora prima aveva pubblicato da Doubleday “Breaking In: How 20 Film Directors Got Their Start”. Bisogna sapere infatti che Richard Gere, prontissimo a scappare appena constata il disastro, ha già qualche altro problema taciuto alla famiglia. Quel tipo di famiglia dove la moglie Susan Sarandon chiede “Mi hai fatto l'assegno per l'ospedale?”, intendendo una donazione da due milioni di dollari, e in caso di ritardo si lamenta come se non ci fossero i soldi per pagare il droghiere. Un buco da 400 milioni, da coprire o almeno da mascherare prima di cedere l'azienda, sfilarsi elegantemente, passare la mano. L'incidente complica la faccenda, e quando un giovanotto nero – in passato beneficato – entra in scena come autista lampeggia la scritta “capro espiatorio”. Il poliziotto Tim Roth, sempre stravaccato sulle sedie, cerca le prove che inchiodano il ricco e spietato.