
LOCKE
Povero Ivan Locke – nessuna parentela con il filosofo John Locke e con il personaggio della serie “Lost” che ne eredita il nome. Lo hanno sottoposto al trattamento “Lincoln”: la tecnica italianissima di doppiaggio che vanifica gli sforzi dell'attore bravo a sparire nel personaggio. Nel film di Steven Spielberg, Daniel Day-Lewis aveva manicalmente lavorato perché Abraham Lincoln non parlasse come un libro stampato o un discorso alla nazione (pur dicendo cose meritevoli di stare in un libro stampato e in un discorso alla nazione). Il doppiatore Pierfrancesco Favino cancellò lo splendido risultato impostando la voce e scandendo ogni parola come se fosse scolpita nel marmo. Fabrizio Pucci – in “Locke” doppia Tom Hardy – ha la stessa tendenza a caricare i toni. “Tra una volta e mai esiste la stessa differenza che passa tra il male e il bene” è una gran bella frase se viene pronunciata come una chiacchiera. Diventa insopportabile – in un film, perlomeno – se esce di bocca come una massima. Smessa la museruola polipesca del cattivo Bane in “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” di Christopher Nolan, Tom Hardy sa il copione a memoria (ogni ripresa durava una ventina di minuti) e riesce a parlare di calcestruzzo, salsicce, partite di calcio, responsabilità lavorative e personali come uno fa al telefono, mentre guida, usando il vivavoce. Gli interlocutori non si vedono mai, l'attore al volante è inquadrato sempre in primo piano, attorno a lui brillano le luci notturne della strada che va da Birmingham a Londra. Il regista, già sceneggiatore di “La promessa dell'assassino”, ammette che riprese con la videocamera digitale fanno sempre un bell'effetto (il modello è “Collateral” di Michael Mann, manca solo il coyote). Scommessa riuscita benissimo, “Locke” dimostra il potere sublime della scrittura. Gli aspiranti romanzieri, invece di sfidarsi a “Masterpiece”, dovrebbero studiarlo e imitarlo. A scrivere dei fatti propri son buoni quasi tutti, altro è costruire e caratterizzare personaggi facendoli parlare dei vari tipi di cemento, dei camion da sincronizzare, di un certo errore da riparare. Potrebbe essere un radiodramma, ed è certamente molto più sperimentale dei film che per partito preso intendono rivoluzionare la narrazione. Lo è ma non si vede: acchiappa dal primo minuto e tiene con il fiato sospeso fino all'ultima telefonata.


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